Oltre le grate della rivolta

A dieci anni da «Genova 2001», sono molti i libri pubblicati su quelle giornate. Dall’uccisione di Carlo Giuliani alla mattanza della Diaz e all’inferno di Bolzaneto. Un sentiero di lettura a partire da un volume di Alessandro Mantovani sul processo che ha messo alla sbarra i vertici della polizia

A dieci anni da «Genova 2001», sono molti i libri pubblicati su quelle giornate. Dall’uccisione di Carlo Giuliani alla mattanza della Diaz e all’inferno di Bolzaneto. Un sentiero di lettura a partire da un volume di Alessandro Mantovani sul processo che ha messo alla sbarra i vertici della polizia

Piazza Alimonda, caserma di Bolzaneto, scuola Diaz: le tre stazioni principali sul Golgota di Genova, quelle che vanno dall’omicidio di Carlo Giuliani all’abuso di potere su corpi e menti di decine di persone fino alla vendetta squadrista travestita da ordine pubblico. A dieci anni di distanza non c’è stato modo di elaborare davvero il lutto politico di una generazione cacciata dall’uscio della partecipazione pubblica su cui si era appena affacciata: troppo incalzante è stato l’esercizio della forza, troppo debole la capacità del movimento di ripensarsi, troppo elusivi se non nulli gli sguardi e le risposte delle rappresentanze istituzionali, troppo superficiale l’attenzione dei media.

Rimangono le storie individuali, le memorie sotterranee e particelle di analisi maturate in piccoli gruppi. Poco rispetto alla densità di quei giorni, a quella sconfitta della democrazia: voluta da un potere che la concepisce con paravento di oligarchie autoreferenziali, subìta dai movimenti che pure la volevano «partecipata» e – invece – poi ripiegati in fretta sull’autoriproduzione del proprio ceto politico. Restano, anche, le «verità» dei processi, perché nei tribunali la storia del G8 e dei suoi crimini è stata scritta e riscritta più volte, con esiti contraddittori e – soprattutto – inadeguati per quella che era stata definita «la messa in mora dello stato di diritto e della Costituzione». 

La notte dell’orrore
Sono stati i tribunali il principale luogo pubblico di ricostruzione di vicende sociali, politiche, umane d’impronta collettiva. Gli esiti sono stati amari, insufficienti a dare una risposta alla domanda di fondo: perché? In questo caso, perché – da chi e secondo quale disegno, se un disegno c’era – uno stato dell’Occidente ricco e democratico si è trasformato in un mostro d’illegalità e abuso. Per nessuna delle tre stazioni principali del Golgota genovese, la magistratura ha trovato risposte credibili, né ha decretato verità e giustizia. Eppure le indagini e i processi, con la loro mole di documenti, almeno un quadro lo possono fornire, un’indicazione la possono dare.
Almeno questo si può fare, dieci anni dopo, per avvicinarsi il più possibile alla verità: riprendere il filo delle storie processuali. Su tutte quella dell’apice del Golgota, l’operazione di polizia alla scuola Diaz nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. Emblematica perché pianificata a tavolino, diretta da uomini di punta dello stato, cosicché le inchieste e i processi coinvolsero i vertici della polizia italiana. Fu quella – tra le tante di Genova – la violenza più ricercata, fredda e gratuita. Il filo di questa storia lo ricostruisce Alessandro Mantovani – che per anni ne ha scritto su questo giornale – nel suo Diaz, processo alla polizia (Fandangolibri, pp. 320, euro 15), un libro che esemplarmente, attraverso i documenti dell’inchiesta e le carte processuali, ricostruice fatti che parlano da soli, senza nemmeno il bisogno di troppi commenti, dedicandosi a una straordinaria ricostruzione di connessioni e contrasti che – a fini etico-politici, non giudiziari – costituiscono un durissimo atto d’accusa ai vertici della polizia italiana. Ma non solo: perché se c’è un filo conduttore che emerge in questa cronaca di misfatti (come anche in un altro importante libro sul G8, La ferita di Marco Imarisio, di cui si parla qui a fianco) è l’assoluta assenza di una regia politica che permette e nutre anche tante approssimazioni nella gestione dell’ordine pubblico. Il Viminale non c’è, dà delle indicazioni preliminari e poi si defila; a palazzo Chigi interessa solo l’intangibilità della zona rossa, fuori si faccia ciò che meglio si crede; la stessa visita di Fini alla centrale operativa di quei giorni sembra un accreditarsi della politica presso l’autorità militare più che un riconoscimento istituzionale. Ma è proprio il vuoto della politica la principale delle scelte fatte dallo stato fin dalla vigilia di Genova. Delegando de facto il potere agli uomini della piazza, agli equilibri e alle «sensibilità» che attraversavano gli apparati e le polizie, creando un clima di guerra – dalla zona rossa alle «notizie» sui manifestanti armati di sangue infetto – per offrire agli addetti alla guerra l’arena in cui esibire la difesa di un potere che si voleva incontrastato e incontrastabile, governo del migliore dei mondi possibili, fiancheggiatore del mercato globalizzato concepito come stato di natura. Ha costruito l’habitat del massacro, il potere politico, per poi lasciarne la gestione e la realizzazione ad altri, senza nemmeno sporcarsene le mani.
La notte della Diaz è esemplare in questo rovesciamento dello stato di diritto. Perché la decisione sull’irruzione è un mix tra spirito di vendetta e volontà «riparatoria», puntando all’arresto di un numero di persone sufficiente a giustificare due giorni di scontri e un’enorme massa di armati. Perché la gestione della piazza di quella notte vede l’incrocio di competenze diverse e l’addossarsi l’uno sull’altro di personaggi e strutture di polizia che si contendono lo spazio e sgomitano, in preda all’ansia da prestazione, dal supercapo De Gennaro all’eroe dell’antimafia La Barbera, dalle squadre mobili alla Digos al nucleo antissommossa di celerini d’assalto, con i soli carabinieri un po’ defilati. Perché tutte le mosse che servono a costruire ex-post un apparato di «prove» tale da giustificare l’operazione-Diaz sono talmente approssimative che finiscono per essere ridicole, a partire dalle famose due molotov ritrovate per strada e poi introdotte dalla stessa polizia nella scuola Diaz per essere esibite come un feticcio black block, salvo scomparire durante il processo essendo state distrutte «per errore» da chi le doveva custodire.

Impunità per i pretoriani
Ma, forse, il principale testimone del black out dello stato di diritto e dell’arbitrio fatto legge è proprio uno dei protagonisti della notte alla Diaz, Vincenzo Canterini, il capo sui supercelerini del reparto mobile di Roma, quando all’indomani della sentenza che lo condanna a quattro anni – di cui tre condonati -, in una lettera pubblica ai suoi «ragazzi» del disciolto settimo nucleo, allude a un imprecisato «nemico» che «si illude di aver vinto», ma che alla fine sarà sopraffatto «dalla serena consapevolezza della nostra innocenza». E conclude con epica hollywoodiana: «Coraggio ragazzi, il vostro comandante vi è sempre vicino e ancora indossa il casco insieme a voi. Ancora non ci hanno messo a terra». Curioso linguaggio per un alto funzionario dello stato condannato a una pena mite per fatti gravissimi e che si rivolge a sottoposti tutti usciti indenni dal processo. Canterini rovescia il senso delle cose e parla come Russel Crowe nel Gladiatore, ma di fronte non ha Commodo difeso dai pretoriani; anzi, lui e i suoi sono i pretoriani cui un potere chiuso dietro grate d’acciaio ha dato mano libera e lasciato senza controllo, per poi liberarsene senza offrire garanzie a chi più non serve. Una volta ottenuto lo scopo di dimostrare come in pieno XXI secolo si possa governare con la sola forza degli armati, violare l’habeas corpus, essere al tempo stesso poliziotti, inquirenti e giudici, distruggere militarmente l’esercizio e la manifestazione delle opinioni, cioè le basi della democrazia. Ricacciare nelle case un’intera generazione, desertificando il panorama sociale e riducendo la politica a un esercizio elettorale sempre più eterodiretto e la partecipazione pubblica al consumo quotidiano di merci e messaggi. Questo è il bilancio di Genova, questo è stato il dopo-Alimonda, Bolzaneto, Diaz. Ci abbiamo messo dieci anni per riprenderci; e non sappiamo ancora fino a che punto né come.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password