Nell'ultimo saggio dello studioso una critica all'etnografia italiana e al capostipite degli studi sui riti e le magie del Mezzogiorno. "All'estero hanno cercato orizzonti cosmopoliti. Noi siamo rimasti in una nicchia".  "Le teorie sociali fornirono ai registi materiale per i film che poi divennero un archetipo" ">

Faeta: “Il sud di de martino sembra un film di rossellini”

Nell’ultimo saggio dello studioso una critica all’etnografia italiana e al capostipite degli studi sui riti e le magie del Mezzogiorno. “All’estero hanno cercato orizzonti cosmopoliti. Noi siamo rimasti in una nicchia”.  “Le teorie sociali fornirono ai registi materiale per i film che poi divennero un archetipo”

Nell’ultimo saggio dello studioso una critica all’etnografia italiana e al capostipite degli studi sui riti e le magie del Mezzogiorno. “All’estero hanno cercato orizzonti cosmopoliti. Noi siamo rimasti in una nicchia”.  “Le teorie sociali fornirono ai registi materiale per i film che poi divennero un archetipo”

Quei tarantolati, quelle vedove piangenti in bianco e nero fotografati nelle campagne meridionali e finiti tra le pagine dei saggi di etnografia dell´Italia del dopoguerra, quanto somigliavano in realtà agli sciuscià e ai ladri di biciclette in bianco e nero filmati da Rossellini o De Sica e proiettati sugli schermi dei cinema degli stessi anni… «Ernesto De Martino pensava di osservare il Sud con spirito realista, in realtà lo vedeva con animo neorealista». L´occhio dell´antropologo non è mai stato ingenuo, spesso è stato condizionato da occhiali ideologici e perfino estetici: è severo il giudizio di Francesco Faeta, docente di Antropologia culturale all´università di Messina, un´autorità nel campo della nostra antropologia visuale, ricercatore sul campo e anche fotografo in Nelle Indie di quaggiù, teorico in Strategie dell´occhio e decine di altri saggi, alcuni dei quali dedicati proprio allo sguardo di De Martino, capostipite degli studi sui riti e le magie del nostro Meridione, col quale è particolarmente severo nel suo appena uscito Le ragioni dello sguardo (Bollati Boringhieri, pagg. 285, 18,50 euro), come lo è con tutta la scuola italiana che definisce crudamente “un´antropologia senza antropologi”.

Ernesto De Martino: nel suo libro lei sfida un mito.
«Una figura colossale della nostra cultura e non solo della nostra antropologia, vorrei che fosse chiaro: i suoi meriti non si toccano. Ma abbiamo ora la distanza giusta per valutare anche alcuni limiti della sua impostazione. Prima di tutto, il suo orizzonte scientifico restò strettamente domestico, come in tutta la tradizione italiana…».
Avrebbe dovuto occuparsi anche di tribù africane o polinesiane?
«L´antropologia internazionale aveva ampi orizzonti, ma per lui quel cosmopolitismo era rischioso. Preferì concentrarsi solo sulla sua “patria cercata”, il Mezzogiorno italiano, spinto a questo dalla sua cultura a cavallo tra idealismo, storicismo e marxismo, e soprattutto da una precisa visione di riscatto ed emancipazione delle masse contadine meridionali».
Non ha una sua dignità anche l´etnografia domestica?
«Sì, a patto che non diventi esclusiva, una nicchia in cui rinchiudersi e da cui escludere chiunque altro. E questo fu il vizio di fondo dell´intera antropologia italiana, che ha una storia accidentata. Nacque con grandi premesse e finì per essere strozzata prima dalle politiche nazionaliste poi dall´autarchia fascista. In queste condizioni, già nell´Ottocento, con la complicità della storiografia, la nostra etnografia si ridusse a folclore. Il dopoguerra ne ribaltò ideologicamente le impostazioni, ma non rinnegò l´autosufficienza»
Ma anche l´Italia fu un paese colonialista: non serviva anche a noi un´antropologia “di conquista”?
«L´Italia arrivò tardi e miseramente al colonialismo, quando la spinta alla conoscenza dell´altro si era esaurita. I nostri antropologi finirono vittime della “sindrome di Colombo”: per poter lavorare, dover servire altre nazioni, come capitò a Savorgnan di Brazzà, l´esploratore del Congo».
Tornando a De Martino: lei dunque sostiene che la sua impostazione culturale e politica influenzò il suo modo di vedere e far vedere il nostro Sud?
«Quando parte con un forte impostazione culturale preordinata, l´etnologo sente anche meno il bisogno di vedere. De Martino finì per guardare i suoi soggetti attraverso uno schema visuale anch´esso preordinato, già disponibile, e molto coerente con il suo schema culturale: lo sguardo del Neorealismo. Oggi ne parliamo come di uno stile, ma allora era un paradigma dominante, tanto da apparire realista e naturale, e poi faceva tendenza, non solo in Italia. Anche i fotografi con cui collaborò, come Franco Pinna, appartenevano alla stessa cultura».
Vuole dire che si avvicinò ai tarantolati o alle prefiche lucane come Rossellini o De Sica immaginavano i loro personaggi?
«Fu un rapporto biunivoco: le scienze sociali fornirono ai registi il materiale su cui elaborare trame e immagini, e i loro film servirono da archetipo visuale per le ricerche sul campo. Diciamo che entrambe le visioni, narrativa e scientifica, condivisero la medesima impostazione estetico-politica».
Saper vedere e saper far vedere non dovrebbero essere i primi strumenti del mestiere dell´antropologo?
«Lo sono sempre stati, ma sotto il segno del pregiudizio positivista per cui ciò che si vede è la realtà oggettiva, e quel che si fa vedere, con le fotografie e i film etnografici, è la riproduzione del reale oggettivo. Tranne pochi consapevoli dei limiti culturali del prelievo e della restituzione visuali, come Bateson, Mead e lo stesso Levi-Strauss, troppi studiosi non riuscirono a comprendere che l´occhio dell´antropologo non è vergine ma è educato dalla cultura visuale della sua epoca. Si è ancora riluttanti ad ammettere per esempio che la fotografia etnografica dell´Ottocento è parente della fotografia criminale e dei suoi schemi rappresentativi».
Non è inevitabile che la cultura visuale di un´epoca influenzi lo sguardo scientifico?
«Certo, ma è un limite di cui occorre essere consapevoli. Nel caso di De Martino, quello schema prevedeva la rappresentazione delle popolazioni meridionali come abbandonate a una miseria e a una arcaicità che dovevano in qualche modo essere assolutizzate, per poter essere riscattate dalla politica. Ma in quegli anni in Lucania non c´erano solo tarantolati e pianti rituali. Paradossalmente, il De Martino democratico e uomo di sinistra si guardò bene dall´analizzare il conflitto già esplosivo fra arcaicità e modernità. A un certo punto scelse addirittura di abbandonare la Tricarico di Scotellaro, straordinario laboratorio del riformismo lucano, perché gli parve troppo inquinata dalla modernità. Una modernità sicuramente pericolosa, democristiana e consumista, ma pur sempre reale».
Quello schema ha condizionato l´antropologia successiva?
«Ci sono stati e ci sono ancora epigoni, ma con gli anni Ottanta è cambiato tutto: merito dell´apertura internazionale dei nostri atenei, degli Erasmus, dei dottorati. I nostri giovani antropologi fanno esperienze all´estero e non mostrano più gelosie e tendenze all´isolamento».
Del resto i contadini, neorealisti o meno, non ci sono più. Cosa deve guardare un etnologo oggi? Lei è polemico anche con certe tendenze “modaiole e manieriste” dell´antropologia del quotidiano: teme troppi “etnologi nel metrò”?
«Non mi convince la tendenza dell´antropologia contemporanea ad occuparsi indiscriminatamente di tutto. Non tutti gli oggetti sociali sono egualmente “urgenti”, alcuni sono troppo leggeri per dirci qualcosa di solido sulle relazioni umane. Certo si può fare etnografia anche bevendo cattiva birra nei bar di periferia, ma io penso che ci sia ancora bisogno di affrontare oggetti sociali duri e consistenti: i comportamenti politici, ad esempio, le strutture delle relazioni pubbliche, le istituzioni, sulla linea che fu di Pierre Bourdieu».

 

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password