Prove di utopia in piazza Tahrir

«La Rete ha cambiato il giornalismo, ma il movimento è nato e cresciuto nelle strade». Parla la blogger egiziana Manal Hasan, a Roma per il convegno organizzato dal «manifesto»

 

«La Rete ha cambiato il giornalismo, ma il movimento è nato e cresciuto nelle strade». Parla la blogger egiziana Manal Hasan, a Roma per il convegno organizzato dal «manifesto»

 

Quando sente parlare di «rivoluzione facebook», Manal Hasan si infuria. Lei è una blogger, anzi: coordinatrice del gruppo Arab Techies che lavora per diffondere il software open source e l’accesso a internet, fondatrice con il marito Alaa di un noto blog (www.manalaa.net), Manal appartiene alla generazione che dal 2005 ha intensamente usato la rete come strumento di battaglia. Ma la rete è appunto «uno strumento», insiste: «È stata una rivoluzione del popolo, l’abbiamo fatta occupando piazza Tahrir, sfidando la polizia per le strade. La rete internet, i social network, i blog sono solo uno strumento, per quanto importante».
Manal Hasan è a Roma per partecipare al convegno del manifesto sulle «primavere arabe». Non esita a definire «rivoluzione» quella in corso («non è finita») nel suo paese, e quando le chiedo da dove nasce lei torna indietro agli anni ’90, al tempo in cui doveva essere ancora una ragazzina. Parla della campagna denigratoria montata da forze fondamentaliste contro un certo professore del Cairo noto per le sue idee liberalizzanti (accusato di bestemmia e apostasia, trascinato in tribunale, fu poi costretto a espatriare). «Attorno a quel caso si sono mobilitati numerosi attivisti. Un movimento per i diritti umani ha cominciato allora a rafforzarsi, contro tutti gli ostacoli posti dal governo. Sono sorte organizzazioni di assistenza legale: hanno difeso tutti, gli imputati di terrorismo e quelli arrestati per attività sociali, la sinistra, i blogger, i lavoratori, la povera gente a cui veniva requisita la terra».
Una «rivoluzione» con radici sociali, dunque?
Potrei ripercorrere diversi momenti che hanno contribuito a creare il movimento sfocialo in piazza Tahrir. Penso al movimento contro l’invasione dell’Iraq nel 2003 – è allora che per la prima volta ho sentito urlare slogan contro Mubarak. O al movimento Kifaya nato nel 2005 a sostegno alla seconda intifada dei palestinesi, il lavoro porta a porta per raccogliere cibo e medicinali da mandare nei territori palestinesi. E poi al movimento contro il referendum costituzionale del 2005, quando il regime ha introdotto elezioni presidenziali e legislative multipartitiche e l’occidente applaudiva – mentre invece il sistema era tale che solo Mubarak e il suo partito potessero controllare il gioco. In quell’occasione il regime ha mandato le sue forze di sicurezza ad attaccare ogni protesta, le donne, e poi i giornalisti, egiziani o stranieri: sequestravano telecamere e filmati, non volevano testimonianze. Allora sono successe due cose. Una è che sono entrati in scena i blogger: mettevamo in rete foto e filmati fatti con i cellulari o le mini-telecamere. L’altra è che le donne hanno deciso di reagire alla brutalità. Ricordo una manifestazione con lo slogan «le strade sono nostre»: era un mercoledì e per mesi siamo tornate a manifestare ogni mercoledì, scegliendo zone centrali perché volevamo farci sentire da tutti. Siamo andate davanti a una certa moschea che nel folklore popolare è quella che esaudisce i voti segreti delle ragazze. Insomma, abbiamo cercato di metterci un po’ di creatività. Una volta siamo andate davanti al ministero dell’interno. Era rischioso: è accanto al quartier generale della polizia speciale, il luogo della tortura. Da tempo i gruppi per i diritti umani denunciavano la tortura, sui blog avevamo fatto circolare i dossier. Sarebbe lungo ripercorrere tutte le tappe, ma voglio dire che c’è stato un lungo lavoro molto diffuso, sulla rete ma anche nei quartieri, nella società. Ripenso al primo sit-in a piazza Tahrir, nel 2006, a favore dell’indipendenza della magistratura: noi blogger avevamo messo insieme un enorme dossier da distribuire ai giornalisti. Allora il regime ha cominciato ad arrestare anche i blogger.
Che relazione c’è tra questo movimento e le proteste operaie di cui abbiamo avuto notizia negli anni passati?
È stato nel 2008: una ondata di proteste in diverse fabbriche, centinaia e poi migliaia di lavoratori venivano fermati o arrestati. I blog raccontavano. Già nel 2005 avevamo fatto circolare un appello a farsi citizen journalist, e col tempo si era formata una rete molto ampia di persone che scrivevano sui blog anche dalle zone più popolari del paese. Molti attivisti per i diritti umani avevano cominciato a lavorare nelle zone operaie. Lo sciopero generale del 6 aprile 2008 è stato forse il primo organizzato via facebook, che ha permesso di far circolare la notizia – ricordo che nei giorni precedenti ne sentivo parlare per strada, sui taxi. Voglio dire che ormai l’accesso alle reti sociali va molto oltre gli strati sociali istruiti e anglofoni.
Dice che internet e la rete sono solo strumenti: però hanno avuto un ruolo in tutto questo.
Non c’è dubbio. I blog non fanno la rivoluzione ma hanno cambiato il modo di fare giornalismo. In molti casi, la stampa tradizionale ha attinto alla rete come fonte: ricordo un caso di attacco alle donne, una «molestia sessuale di massa»: qualche blog ha dato la notizia, la voce è circolata, qualche giornalista dei media tradizionali è andato a cercare testimonianze, alla fine ne ha parlato anche la tv satellitare. Oggi si parla pubblicamente delle violenze alle donne, prima era tabù.
Si parla di rivoluzioni fatte da giovani, senza leader, senza partiti: ma cosa potranno i blog di fronte ai vecchi poteri che cercano di imporre il controllo?
Guarda, l’Egitto ora non sarà sulle prime pagine ma il movimento non è rifluito. Il lavoro nella società continua, nei quartieri, nelle fabbriche: la transizione è appena cominciata, i giochi non sono fatti. In questo movimento ci sono diverse generazioni, la vecchia guardia che ha fatto il lavoro dei diritti umani e i giovani che hanno spinto per il cambiamento. Ci sono donne con il hijjab e senza: non ogni donna col velo è una fondamentalista, a volte è un costume sociale che non hai voglia di mettere in discussione – ma tutte militano per la libertà e la democrazia. Il vero problema sono i partiti, con dirigenti di 70, 80 anni che stanno al vertice da decenni – sembrano Mubarak. Io non mi riconosco in nessuno dei partiti che stanno emergendo e mi domando se è proprio necessario strutturare il movimento in partito: forse bisognerà trovare altre forme. Forse in quel mese in piazza Tahrir abbiamo visto l’utopia: diverse generazioni, diverse persone, retroterra culturali, ma tutti insieme a condividere cibo, coperte, idee. Vorrei mantenere viva l’utopia di piazza Tahrir.
Si svolge stamattina l’ultima sessione del convegno sulle primavere arabe organizzato a Roma dal «manifesto» (Centro studi americani, via Caetani 32). Dopo avere esaminato i vari aspetti che hanno caratterizzato i movimenti, è il turno di affrontarne «Le ragioni strutturali». Questo il titolo dell’incontro, cui partecipano Margherita Paolini, Zvi Schuldiner, Samir Amin, Gian Paolo Calchi Novati, Lucia Annunziata, Joseph Halevi, Marco d’Eramo. Chiuderà i lavori del convegno Valentino Parlato.

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