Intervista a Sihem Bensedrine, giornalista tunisina
Intervista a Sihem Bensedrine, giornalista tunisina
Sihem Bensedrine è una giornalista tunisina e si definisce «la vecchia guardia della resistenza» contro la dittatura. Nel 1998 è stata tra i fondatori del «Consiglio nazionale per le libertà in Tunisia» (Cnlt), ha co-fondato riviste indipendenti e un «osservatorio sulla libertà di stampa», denunciato l’uso della tortura da parte della polizia e la corruzione (cosa che nel 2001 le è valso un arresto). Ieri ha parlato delle sfide della transizione in Tunisia.
Per lei è stata una sorpresa vedere tante donne, soprattutto giovani, partecipare in massa ai movimento contro la dittatura?
No. Sapevamo quanto fosse forte la spinta di tante giovani donne a cercare spazi in cui esprimere la propria cittadinanza. E considerati i limiti imposti dal regime, molte avevano scelto la rete: nei blog, internet, i social network prima della rivoluzione trovavi che le più numerose e attive erano giovani donne. Per questo non sono stata sorpresa di vederle poi in strada contro la polizia, o di vedere madri incoraggiare i propri figli ad andare sulle barricate. Era nella logica delle cose. Perché è vero che sotto il regime di Ben Alì la donna in Tunisia aveva diritti giuridici più ampi che altrove, ma erano private della propria cittadinanza. Ed è questa che hanno voluto far valere: prima nella resistenza al regime, poi nella rivolta – e ora, caduta la dittatura, nella costruzione della democrazia.
Già: passato il momento della piazza, che ruolo continuano ad avere le donne?
Molto importante. Come sapete abbiamo formato una coalizione delle 8 organizzazioni per i diritti umani attive nel paese, abbiamo una «tabella di marcia» della transizione: ebbene, attorno al tavolo ci troviamo in 5 donne dirigenti su otto. Per noi la transizione è una sfida più difficile perfino della rivoluzione stessa. Voglio dire: la rivoluzione è arrivata d’improvviso: per noi che da tempo resistevamo al regime è stato una sorpresa vedere con quanta facilità è avvenuta la svolta e il dittatore è fuggito. Ma tagliata la testa dell’idra ne resta il corpo: la parte forse più difficile viene ora, impedire che le forze del vecchio regime si riorganizzino, lavorare perché la transizione porti a costruire istituzioni democratiche. Nella nostra tabella di marcia, un punto riguarda il processo elettorale: garantire la presenza delle donne nelle istituzioni del nuovo stato, elezioni libere e trasparenti. Un successo di cui andiamo molto fiere è aver imposto nel codice elettorale che le donne siano metà dei candidati – e in ordine alternato, uomo donna uomo donna, perché non si ritrovino tutte in fondo alle liste. Non è stato facile: anche i vecchi partiti progressisti si opponevano, dicevano che era una riforma “irrealizzabile”, che non si troveranno abbastanza donne per comporre le liste. Per loro, le donne c’erano per andare in piazza, prendere manganellate, formulare gli slogan della rivoluzione, ma ora “non sono presenti nella società”? E’ l’opportunismo dei partiti, ancora diretti da uomini che considerano lo spazio pubblico una prerogativa maschile. Aver imposto pari candidature è un successo: comunque vada, almeno un quarto dei deputati alla futura Assemblea costituente saranno donne. Elaborare la nuova costituzione senza donne sarebbe stato un pericolo: che democrazia è quella che marginalizza metà della società? E poi il nuovo codice permetterà di promuovere più giovani.
In tutti i nostri paesi l’estraneità dei giovani verso le istituzioni politiche tradizionali è visibile. Com’è il rapporto tra generazioni nella transizione tunisina?
La diffidenza dei giovani è reale ed è dovuta al fatto che erano repressi con particolare durezza sotto Ben Ali. Nei nostri rapporti sui diritti umani parlavamo di un “reato di gioventù”: se sei giovane, appena apri bocca finisci in galera. Questo ha provocato in loro una forte diffidenza verso associazioni, partiti, gli spazi classici dell’espressione politica. I giovani però c’erano – altrove. Questo era sfuggito ai politici tradizionali, non a noi forze della società civile. La resistenza dei giovani ha preso altre forme: sono loro che hanno organizzato la rivolta nella rete. Una resistenza “virtuale”, che si è espressa sul terreno appena la rivoluzione è scoppiata: lì abbiamo visto i giovani scendere in prima persona. Credo che la rivoluzione abbia riconciliato la vecchia guardia della resistenza e questa gioventù. Allo stesso tempo, i loro modo di esprimersi, linguaggi, il rapporto con la politica è diverso, e noi stiamo cominciando a imparare da loro.
Qui abbiamo visto, nel documentario di una giovane cineasta tunisina, gruppi di militanti fondamentalisti attaccare un bordello, poi manifestazioni per la laicità. La spinta islamizzante: è un’altra sfida della transizione?
Ci sono stati alcuni episodi simili. Ma sottolineo che questi gruppetti, in sé molto minoritari, sono manipolati dalla polizia politica. Li infiltrano e li usano per destabilizzare: li abbiamo visti attaccare bordelli, e poi la sinagoga, cristiani, donne. Davanti alla sinagoga ho io stessa riconosciuto tra loro tre agenti di polizia. Vogliono far passare il messaggio che solo la dittatura proteggeva le minoranze.
Ci sono però forze politiche islamiche più tradizionali: quanto pesano nella transizione?
Il partito Nahva, gli islamisti moderati, non chiedono uno stato teocratico e dichiarano di accettare il gioco democratico. Non credo che andranno oltre il 20% dei voti. E non credo che siano una minaccia: hanno il loro elettorato e la democrazia è ben questo, che ciascuno possa esprimersi. La società tunisina non sarà islamizzata. Le donne che sono scese in piazza, incluse le molte che portano il foulard, non accetteranno che i diritti conquistati gli siano tolti. La vera minaccia alla giovane democrazia tunisina sono piuttosto i residui dell’Ancien régime: la polizia politica e il nocciolo duro del disciolto partito di Ben Ali. La minaccia sono loro.
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