Testimoni a confronto con la Shoah

Un saggio di Christopher R. Browning per Laterza sul campo nazista di Starachowice. Lo storico ricostruisce alcuni processi tra cui quello a Becker, poliziotto del ghetto di Wierzbnik assolto in virtù di testimonianze giudicate contraddittorie

Un saggio di Christopher R. Browning per Laterza sul campo nazista di Starachowice. Lo storico ricostruisce alcuni processi tra cui quello a Becker, poliziotto del ghetto di Wierzbnik assolto in virtù di testimonianze giudicate contraddittorie

Fra i lager organizzati dai nazisti i meno studiati sono i campi di lavoro. La loro diversa tipologia, la difficoltà di stabilire se rispondessero prevalentemente a criteri economici o di mero sterminio, il coinvolgimento diretto o indiretto di popolazioni diverse da ebrei e tedeschi nella loro realizzazione e organizzazione, la gerarchia che al loro interno distingueva fra prigionieri comuni e privilegiati, tutto ciò solleva questioni specifiche e allo stesso tempo porta alla luce aspetti generali della Shoah riguardo i testimoni, le vittime, i responsabili dei crimini, gli studiosi incaricati di ricostruire le vicende e i giudici che istruiscono i casi e producono sentenze. Si muove in questo ambito il nuovo lavoro di Christopher R. Browning, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice (trad. it. Paolo Falcone, Laterza, pp. XXII+386, euro 20,00) che prende in esame la liquidazione degli ebrei della cittadina polacca di Wierzbnik mandati in parte a morire a Treblinka e in parte nei campi forzati del lavoro industriale della vicina Starachowice.

Oltre a ricostruire cronologicamente quanto accadde, Browning focalizza l’attenzione sui processi che alcuni responsabili di queste vicende subiscono dopo la seconda guerra mondiale e in particolare sul processo a Walther Becker, poliziotto accusato di essere stato un dei principali partecipanti alla liquidazione del ghetto di Wierzbnik e che alla fine, come altri imputati, venne assolto perché i testimoni furono giudicati contraddittori e non sufficientemente obiettivi.
«Il giudice che presiedeva la Corte dichiarò, per una questione di principio, che le deposizioni dei testi oculari erano tra le testimonianze meno attendibili. Il teste ideale avrebbe dovuto essere un osservatore indifferente che guardava agli eventi in modo distaccato, ma nessun testimone ebreo corrispondeva a questi requisiti».
La fenomenologia della testimonianza che esce dalla storia del campo di Starachowice sembra suggerire che i fatti storici, pur eccezionali come la Shoah, dovrebbero essere considerati rimanendo rigorosamente in quell’ambito dove i confini tra ideale e reale, bene e male non risultano sempre assoluti e che proprio perciò devono e possono essere di volta in volta vagliati criticamente. A questo scopo, occorre considerare i documenti non separandoli dal loro contesto, né come elementi le cui eventuali contraddizioni negano loro valore di prova. Ogni testimonianza viene espressa attraverso il linguaggio di persone la cui memoria muta con il passare del tempo, grazie a fattori psicologici, sociali, estetici e tali cambiamenti, se analizzati all’interno di una massa consistente di attestazioni, non autorizzano atteggiamenti di sfiducia nei confronti dei testimoni.
Un altro aspetto importante che Browning porta alla luce è la struttura narrativa delle testimonianze. In molti casi i testimoni non seguono un filo cronologico, come del resto Primo Levi in Se questo è un uomo. (A questo proposito sarebbe utile leggere l’Intervista a Primo Levi, ex deportato pubblicata ora in volume autonomo a cura di Anna Bravo e Federico Cereja, Einaudi, «Vele», pp. 93, euro 10,00). Va inoltre aggiunto il fatto che i resoconti, nel corso degli anni, si possono arricchire di particolari prima taciuti, per esempio le vendette di ebrei contro altri ebrei o la rivelazione delle violenze sessuali subite dalle donne. «La linea che separa i ricordi segreti, comuni e pubblici ovviamente non è netta e può variare nel corso del tempo. Gli stupri e gli omicidi per vendetta cominciarono a diventare ricordi pubblici circa quarantacinque anni dopo».
La ricerca di una testimonianza che si presuppone disinteressata, pura e idealmente oggettiva come quella voluta dai giudici tedeschi e che ha determinato l’assoluzione di personaggi chiaramente colpevoli nella vicenda ricostruita da Browning, mostra chiare similitudini con l’idea che il linguaggio sia inadeguato a parlare della Shoah, riesumando quella indicibilità alla quale aveva fatto riferimento Adorno subito dopo la guerra e che mira anch’essa a una sorta di ideale purezza raggiungibile solo attraverso il silenzio. Al contrario, quel che mostra il libro di Browning è che in determinate circostanze, proprio le testimonianze più apparentemente prive di contraddizioni sono quelle che meritano più sospetti. Perciò, lo storico ci suggerisce come l’orizzonte interpretativo che sta attorno ai fatti non vada soltanto considerato come un’impurità da eliminare, ma anche come il viatico per approdare agli accadimenti da accertare. «In alcuni casi le testimonianze contrastanti non devono e non possono essere conciliate – scrive Browning – e per questo vanno sottoposte al vaglio del giudizio critico. Tale giudizio critico è ovvio e abituale per gli storici di altri eventi, ma è frenato da considerazioni di carattere emotivo nel caso dell’Olocausto, i cui supersiti sono stati trasformati in messaggeri di un altro mondo. E soltanto costoro, si dice, hanno il diritto di comunicare l’incomunicabilità di un’esperienza ineffabile».
La separazione fra fatto e interpretazione, documento e contesto è spesso il frutto di un’invisibile pre-interpretazione che si sottrae al vaglio critico e pone una richiesta di presunta oggettività nei confronti della quale quanto è realmente accaduto non risulta mai adeguato. «Se lo storico dovesse attendere la prova perfetta – dice ancora Browning – probabilmente si scriverebbe molto poco di storia.»

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