Una sentenza per elaborare la storia

Mentre scriviamo la Corte non si è ancora pronunciata, ma è atteso un no all’estradizione. Una decisione quella del Tribunale Supremo brasiliano sul caso Battisti che, se confermerà  l’attesa, non stupisce. Quantomeno non stupisce coloro che hanno cercato di seguire le argomentazioni delle autorità  giudiziarie e politiche brasiliani senza quell’eccesso di affermazioni apodittiche sul caso specifico e di connotazioni specifica sulla sua persona che hanno caratterizzato il dibattito italiano.

Mentre scriviamo la Corte non si è ancora pronunciata, ma è atteso un no all’estradizione. Una decisione quella del Tribunale Supremo brasiliano sul caso Battisti che, se confermerà  l’attesa, non stupisce. Quantomeno non stupisce coloro che hanno cercato di seguire le argomentazioni delle autorità  giudiziarie e politiche brasiliani senza quell’eccesso di affermazioni apodittiche sul caso specifico e di connotazioni specifica sulla sua persona che hanno caratterizzato il dibattito italiano.

Un eccesso di attribuzione di ruolo, responsabilità e rappresentatività simbolica che ha finito per rendere il suo caso non più una pur controversa applicazione di regole e trattati, ma quasi un regolamento di conti con un periodo della nostra storia, collettiva e individuale, nonché una muscolare rappresentazione della nostra pretesa superiorità giuridica.
Tutto ciò ha reso più deboli le argomentazioni di chi riteneva opportuna e regolare la sua estradizione, ma ha al contempo evidenziato la debolezza delle stesse poiché ha posto nuovamente in evidenza uno dei limiti teorici, culturali e concreti della legislazione dell’emergenza di trent’anni fa: quella piegatura soggettivista che determinava la centralità non già dell’astrattezza dell’accertare e sanzionare in sede processuale reati e relativi responsabili, bensì quella della valutazione della personalità di ogni imputato, per valutare il suo essere o meno ancora irriducibile antagonista o la sua disposizione a collaborare o a dissociarsi dal proprio passato. Le gabbie che distinguevano nella scena processuale gli imputati tra pentiti, dissociati e irriducibili erano l’immagine plastica di questo approdo culturale; e la collocazione in una o nell’altra gabbia era indicativa di un passaggio che mutava entità della pena e modalità della sua esecuzione.
In qualche modo il dibattito che si è sviluppato attorno alla vicenda Battisti è stato ancora figlio di quella cultura, anche nei modi e nei toni. Eppure il contesto naturale in cui considerare le motivazioni per cui il presidente Lula ha chiuso il suo mandato negando l’estradizione di Battisti e la decisione odierna del Tribunale Supremo che stabilisce che tale decisione non è in conflitto con il trattato di estradizione tra Brasile e Italia, dovesse essere del tutto diverso. Una schematica illustrazione può essere data in due punti. Il primo è che nessuno stato concede l’estradizione di un individuo verso un paese dove egli dovrebbe scontare una pena non prevista nel proprio ordinamento: e ciò nonostante l’assicurazione che possa essere data dallo stato richiedente, perché questa ha valore non vincolante, meramente intenzionale. L’Italia poteva commutare la pena dell’ergastolo, che non esiste in Brasile, in una pena temporanea prima di richiederne l’estradizione. Non solo, ma – e questo è il secondo punto – proprio l’eccesso di dichiarazioni e di vesti stracciate all’ipotesi della mancata estradizione, ha indotto le autorità brasiliane a ritenere che una volta estradato, Battisti non avrebbe goduto dei normali percorsi di esecuzione della pena previsti dal nostro ordinamento e dei relativi benefici e che, quindi, avrebbe avuto condizioni peggiori rispetto a quelle di un qualsiasi altro detenuto. E ciò è uno degli elementi per i quali il trattato non autorizza l’estradizione.
La chiusura odierna della vicenda deve comunque servire non già a riaprire sterili discussioni o indignate proteste, bensì a riflettere sulla necessità di elaborare le storie di quegli anni, in un modo tale da non avere alcuna compiacenza con vicende e scelte drammatiche che hanno prodotto lutti, ma neppure assecondare una ricostruzione auto-assolutoria della memoria che non rende giustizia a quanto anche di negativo sul piano istituzionale e ordinamentale essa ha lasciato.

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