Inafferrabili e indisponibili

Fino a pochi anni fa, parlare di precarietà  con uno studioso anglosassone comportava un lavoro preliminare di traduzione del termine, facendo riferimento a espressioni come «temps» o «flexible work», largamente usate nelle scienze sociali inglesi e statunitensi per sottolineare la crescita di lavori che ingrossavano le file dei cosiddetti «working poors».

Fino a pochi anni fa, parlare di precarietà  con uno studioso anglosassone comportava un lavoro preliminare di traduzione del termine, facendo riferimento a espressioni come «temps» o «flexible work», largamente usate nelle scienze sociali inglesi e statunitensi per sottolineare la crescita di lavori che ingrossavano le file dei cosiddetti «working poors».

 Oppure poteva essere spiegata citando testi di autori francesi, come Pierre Bourdieu, che avevano cominciato a discutere di precarietà, mutuando la parola dal lessico di teorici eterodossi e attivisti italiani. Lo ricorda bene Andrea Fumagalli nella pagina accanto, laddove scrive di «precariat» e «precariousness» come veri e propri neologismi. Sta di fatto che la precarietà è diventata una condizione che riguarda ormai tutto il lavoro vivo. È cioè diventata la condizione della maggioranza della forza-lavoro. I dispositivi giuridici che l’hanno legittimata possiedono anche una funzione preventiva rispetto ai conflitti che coinvolgono i lavoratori a tempo indeterminato. In altri termini, la precarietà svolge una funzione politica nel consolidare il potere sociale del capitale.
Mai la dimensione giuridica ha rivelato la sua funzione «governamentale» come nella gestione della precarietà. Le tassonomie dei contratti di lavoro previsti articolano infatti il come e il quando le imprese possono acquistare lavoro sul mercato secondo le loro necessità, riducendo così il lavoro vivo a merce. La precarietà è stata inoltre la risposta feroce e di «classe» a quell’indisponibilità del lavoro vivo a rimanere forza-lavoro massificata e omogenea com’era nella grande impresa. Il nodo da sciogliere, tuttavia, non è la definizione del profilo sociale del precario e della precaria. Sarebbe infatti un’operazione accademica, perché la precarietà è inafferrabile, cioè rende fallace ogni spiegazione univoca di quella condizione lavorativa, sociale, esistenziale. Più urgente, allora, è immaginare forme organizzative, parole d’ordine per uomini e donne che non si sentono classe e che spesso neppure ambiscono a essere tale, nonostante un regime di sfruttamento incardinato sulla sollecitazione continua a diventare, proprio perché precari, fonte di innovazione e di creatività.
Ci sarebbe da riflettere, e molto, sul fatto che per rappresentare la condizione del precario si mescolino promesse di lavoro creativo e evocazione di povertà premoderne, facendo quindi leva su un lessico che le culture del movimento operaio avevano consegnato alla critica roditrice dei topi. Cosa fare, dunque? Quello che hanno fatto in questi anni gli organizzatori della MayDay, arrivando a proporre di pensare collettivamente una forma di «sciopero precario» che interrompa, per usare un termine caro al geografo americano David Harvey, il flusso del capitale. Oppure quello che hanno fatto i ricercatori precari e gli studenti nelle strade di Londra, Parigi, Atene e Roma. Oppure quello che stanno facendo gli «indignados» spagnoli. Di sicuro sono tutte iniziative e forme di conflitto che potrebbero rafforzarsi se la proposta di «basic income» diventasse parte integrante del lessico politico dei gruppi di precari. L’incontro che inizia domani a Roma ha come asse proprio le proposte di un reddito minimo incondizionato. È tempo che le analisi più innovative su una possibile riforma del welfare incontrino chi ritiene che l’inferno della precarietà non sia una condanna a vita.

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