Ci sono tre folte categorie di onesti lavoratori che da una decina di giorni sudano freddo e aspettano con trepidazione l’ora della verità a Milano e Napoli. Hanno studiato e creato dal nulla un mestiere: qualcuno ci si è fatto ricco, qualcun altro ci campa decorosamente. Ora rischiano tutti, le star e i comprimari, di ritrovarsi a spasso, costretti dopo quindici anni a ricominciare da zero.
Ci sono tre folte categorie di onesti lavoratori che da una decina di giorni sudano freddo e aspettano con trepidazione l’ora della verità a Milano e Napoli. Hanno studiato e creato dal nulla un mestiere: qualcuno ci si è fatto ricco, qualcun altro ci campa decorosamente. Ora rischiano tutti, le star e i comprimari, di ritrovarsi a spasso, costretti dopo quindici anni a ricominciare da zero.
Il primo gruppo è composto dai professionisti del berlusconismo. Numerosi sin dall’inizio, si sono moltiplicati negli ultimi anni, via via che al magnifico veniva meno il senso delle proporzioni e si convinceva di gareggiare con Gesù Cristo. Hanno ottime ragioni per angustiarsi. Uno come Giorgio Clelio Stracquadanio, giusto per fare un nome fra i tanti, che futuro politico può avere una volta tramontato l’astro di cui è stato (infimo) satellite?
L’ex portaborse di Tiziana Maiolo, poi fondatore del quotidiano online Il predellino è un tipo solerte. Se capita un editto bulgaro, si alza per strillare che non basta e che il capo è stato, tanto per cambiare, troppo buono. E con tutto questo, anche nei giorni della gloria, doveva sudare per farsi eleggere tra i rappresentanti del popolo berlusconizzato: trombato nel ’96, eletto dieci anni dopo al Senato, ritrombato nel 2008 ma subentrato grazie a una rinuncia. Figurarsi quando arriverà l’epoca della vacche magre.
Sarà dura anche per Olindo e Rosa, al secolo Sallusti Alessandro e Santanchè Daniela. Ce l’hanno messa tutta per emulare meglio che gli riusciva, sia pur in versione incruenta, i ragazzi in nero della repubblica sociale, con pieno e meritato successo. Hanno legato indissolubilmente le loro immagini, il piglio da ufficiale nazi di lui, la poco discreta avvenenza di lei, alla linea durissima. Nemmeno dopo il disastro milanese hanno concesso un attimo al ragionevole dubbio: picchiare era sacrosanto, ohibò! E sotto col dito medio sbandierato come ruggente stendardo.
Quando arriverà l’immancabile momento del trasformismo di massa, quando persino il delfino di re Silvio, Angelino Alfano, riuscirà a dimostrare di non essere mai stato davvero berlusconiano, quando i Gasparri e i La Russa si lanceranno in un’ennesima piroetta nell’improbabile tentativo di sopravvivere al tracollo del padrone, saranno gli stessi ex compagni di fazione a fuggire come la peste Alessandro e Daniela, piccole guardie nere di questa ridicola Salò berlusconiana, condannatesi da sole, e sia detto a loro merito, a non poter azzardare trasformazioni di sorta.
Sin qui nulla di strano. Quando un sistema di potere affonda è fisiologico che una parte dei gerarchetti e dei corifei s’inabissino con lui. Meno ovvia è l’esistenza di un secondo gruppone che altrettanto giustamente paventa il crollo del combattuto regime. Sono i professionisti dell’antiberlusconismo, quelli che in un regime propriamente detto sarebbero stati in galera o in esilio, nella migliore delle ipotesi se la sarebbero passata male, e che invece, nel bizzarra dittatura cavalieresca sono diventati ricchi e famosi.
Marco Travaglio, per esempio, non si può dire che al berlusconismo debba tutto, disponendo di un indubbio talento. Ma molto gli deve di sicuro. Negli anni ’90 aveva pubblicato sette libri, che erano già una quantità se non proprio esorbitante certo più che decorosa. Nei dodici anni successivi ne sono usciti una trentina o giù di lì, cifra che invece esorbita eccome, senza contare le trasmissioni televisive (con o senza il famigerato contratto), le recite teatrali, la diuturna attività giornalistica, i blog, le prefazioni, le postfazioni, le più o meno avventurose comparsate in pubblico. Uno stakanovista della Resistenza.
Ha fatto fortuna anche il quotidiano che Marco il partigiano vicedirige. Non che Il Fatto quotidiano parli solo di berlusconismo. Una percentuale (minima) di spazio è dedicata anche ad altre cronache dalle procure, ma appunto esigua e ben cosciente di esistere solo in virtù della crociata principale. Nell’ultimo e livido scorcio del regime, il quotidiano antiregime è l’unico che abbia venduto benissimo e incassato alla grande. Non ci si deve pertanto stupire se, come raccontava giorni fa il suo direttore Padellaro, mentre fioccavano i festeggiamenti un tecnico con la vista lunga gli ha buttato lì papale: «A dottò, nun è che ce stamo a da’ la zappa sui piedi?».
Tra luogotenenti vicini al fustigatore dalla prima ora e convertiti di fresco, il Fattoè l’università dell’antiberlusconismo per mestiere, ma non è che i professionisti si siano concentrati tutti lì. Al contrario, pullulano nelle redazioni ma anche su schermi, teleschermi e palcoscenici. Giornalisti di chiara fama e lungo corso hanno trovato, resistendo resistendo resistendo, una seconda giovinezza. Abbondano i comici talentuosi che sul pittoresco liberticida ci campano quasi da decenni: dover ricominciare a guardarsi attorno per inventarsi qualche cosa sarà faticoso, ma anche rigenerante. Era ora. Alla fine, come sempre, qualcuno, i più dotati o i più lesti nel riciclarsi, sopravvivrà al cataclisma, ma altri saranno cancellati dalla scomparsa del loro eterno bersaglio.
E il terzo gruppo di professionisti a rischio di licenziamento? Ma che domande: siamo noi, i professionisti dell’anti-antiberlusconismo. Non sarà legione come i precedenti, ma è pur sempre un bel pattuglione, composto da chi pur animato da fiera ostilità per il cavaliere nero ha in questi anni contrastato la logica secondo cui pur di abbattere l’odiato tutto faceva brodo: giustizialismo, ipocrisia, persino una buona dose di berlusconismo antiberlusconiano.
Anche quello, col tempo, è diventato mestiere. Anche quelle argomentazioni si sono via via trasformate in repertorio e anche quel lavoro finirà inevitabilmente travolta dall’effetto domino innescato dalla caduta del Pezzo Grosso. Senza troppi rimpianti, peraltro, perché la professione dell’anti-antiberlusconismo, a differenza delle altre due, ha sempre pagato poco in termini di popolarità e pochissimo in soldoni.
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