Un volume collettivo sul comunismo. Da Alain Badiou a Slavoj Zizek, a Jacques Rancière una discussione sulla possibilità di una rinnovata politica radicale
Un volume collettivo sul comunismo. Da Alain Badiou a Slavoj Zizek, a Jacques Rancière una discussione sulla possibilità di una rinnovata politica radicale
Possono essere sconfitti i comunisti, ma non le loro idee. Può sembrare la storpiatura di uno slogan, ma è invece il concetto su cui ruota uno dei saggi che compongono L’idea di comunismo (DeriveApprodi, pp. 240, euro 18), volume che raccoglie i materiali di un convegno svolto in Inghilterra poco più di un anno fa, cioè quando gli effetti della crisi economica si sono manifestati nella loro radicalità. È in questo contesto che un gruppo molto eterogeneo di studiosi si sono incontrati a Londra per discutere del grande sconfitto del Novecento, il comunismo. Ma il meeting non voleva concedere nulla alla contingenza. Chi prendeva la parola, presentava riflessioni maturate nel corso di quasi vent’anni, cioè da quando il crollo del Muro di Berlino ha segnato una cesura nell’immaginario collettivo, perché sotto quelle macerie non c’era solo il socialismo reale, ma anche l’idea stessa di trasformazione sociale.
Chi saliva sul palco di Londra riflette sulla lunga durata dei processi sociali e politici e cerca di individuare la strada che costituisca, per usare le parole di Slavoj Zizek, un nuovo inizio. Si tratta di studiosi che pervicacemente hanno provato, negli anni della controrivoluzione liberista, di non liquidare come un mostro della ragione la tensione ad «abolire lo stato di cose presenti». Ma i venti anni che separano la caduta del Muro di Berlino e l’incontro londinese sono stati anni di diaspora intellettuale delle diverse «scuole marxiste» europee, al punto che è impossibile trovare punti di vista condivisi tra i tanti interventi presenti in questo libro. Ma è tuttavia questa eterogeneità che rende L’idea di comunismo un documento che bene rappresenta i nodi teorici indispensabili da sbrogliare per il termine comunismo.
Una mappa imprecisa
Il rapporto tra comunismo e diritti individuali; il ruolo della Stato nei processi di trasformazione; la riapertura del dossier sul nesso tra marxismo e filosofia dopo le tesi di Jacques Derrida sugli Spettri di Marx che non turbano più i sonni del pensiero dominante. Emerge così una prima mappa per orientarsi nel terreno accidentato del pensiero critico contemporaneo. Mappa tuttavia incompleta. Sono infatti assenti i tanti laboratori latinoamericani, quelli degli studi postocoloniali, cioè le due dimensioni teoriche che più di altre hanno sottolineato la necessità di una presa di congedo dalle esperienze politiche novecentesche per affrontare l’avvenuta cosiddetta provincializzazione del comunismo europeo. Assenti anche i tanti tentativi eterodossi che hanno cercato di innovare il marxismo attraverso robuste iniezioni di «teorie ribelli» ma non comuniste. È sì presente la Cina, a cui sono dedicato un intervento (Alessandro Russo) che mette in evidenza come la Rivoluzione culturale abbia costituito il collasso del pensiero politico moderno, dopo il quale un paese che si definisce ancora comunista ha imboccato la strada di un feroce capitalismo che vuole imporre con ogni mezzo necessario l’armonia sociale. Un vero paradosso che induce a pensare altri termini diversi da socialismo e comunismo per indicare una politica della liberazione.
Il punto di partenza della discussione a distanza lo offre comunque il testo di Alain Badiou. Il filosofo francese propone una vera e propria provocazione intellettuale, quando sostiene che il comunismo è un’idea in azione che sopravvive nonostante le vicende che hanno caratterizzato il Novecento. Poco contano i fallimenti del socialismo reale, perché, sostiene Badiou, l’idea del comunismo è un filo rosso che attraversa tutta la filosofia, da Platone fino ad i nostri giorni. Detto più semplicemente, l’idea di comunismo non viene cancellata da una sconfitta politica, perché l’incommensurabile distanza tra l’idea e la sua traduzione politica consente nuovamente di riproporre il comunismo come idea in azione. Il comunismo altro non sarebbe che un’araba fenice che rinasce sempre dalle sue ceneri politiche. Da questo punto di vista, le tesi di Badiou sulla possibilità di poter pensare la politica solo nella contingenza, mentre l’idea ha una sua forza che trascende il tempo storico, laddove si sia manifestato l’evento dove «l’uno si divide in due», cioè si manifesta l’irriducibilità di due visioni del mondo e dei rapporti sociali. Un evento – la comune di Parigi, la Rivoluzione culturale cinese – che scaturisce sì nel conflitto di classe ma che manifesta il punto di non ritorno di quando l’idea entra in azione. Per questo il comunismo è sempre una possibilità attuale.
Qualche malizioso ha scritto che quella di Badiou è la proposta di un «comunismo speculativo» che mette tra parentesi i limiti, le aporie che il movimento reale ha sperimentato nel suo divenire. Dunque, altro non sarebbe che una teologia consolatoria che non aiuta a capire le ragioni della sconfitta dell’«ipotesi comunista». È infatti difficile avviare una riflessione sul comunismo senza fare i conti con quell’evento – la caduta del Muro di Berlino – che invece di dividere l’uno in due ha unificato il mondo sotto l’ombrello di un modo di produzione dominante, il capitalismo. Più pregnante sarebbe la comprensione del perché che non può limitarsi a una accurata stenografia nella diaspora intellettuale che ha accompagnato i marxismi europei ci sia stato l’incontro con costellazioni filosofiche lontane dal comunismo (Michael Foucault, Gilles Deleuze, il pensiero della differenza sessuale) e tuttavie interessate a «politiche della liberazione».
Il glamour del comune
Come in ogni incontro che si rispetti ci sono proposte teoriche che si discostano dall’ordine del discorso proposto. Vale allora ricordare gli interventi di Jacques Rancière, Terry Eagleton, Toni Negri e Michael Hardt. Eagleton individua nella difficoltà di immaginare forme radicali di democrazia il limite maggiore del comunismo novecentesco. Eagleton, che va ricordato è stato ed è uno degli animatori della rivista «New Left Review», ritiene che il problema maggiore da risolvere è la tensione e l’alterità tra diritti individuali e esperienza comunista, mentre Jacques Ranciére evidenzia l’impossibilità di riproporre il comunismo come una idea normativa della società da costruire, invitando a guardare ai processi di emancipazione il contesto in cui misurare la potenza politica del comunismo in quanto movimento che abolisce lo stato di cose presenti. Arrivando amaramente alla conclusione che tale potenza politica debba essere semplicemente reinventata in un processo nel quale i comunisti dovrebbero comportarsi come «maestri ignoranti» che stabiliscono un rapporto di reciprocità e eguaglianza con gli altri protagonisti dei processi di emancipazione.
Chi invece invita ad abbandonare questo ordine del discorso sono Michael Hardt e Toni Negri. I loro interventi possono essere riassunti in una frase: per cambiare il mondo occorre nuovamente interpretarlo alla luce di quella nuova forma della sovranità che è l’impero e, infine, ma ben più importante, di quel legame tra capitale finanziario, produzione di soggettività che è alla base del cosiddetto capitale cognitivo.
È questo quindi il terreno su cui va infatti misurata la possibilità di una riqualificazione del termine comunismo. Dunque non un’idea in azione, ma una prassi teorica che si misura con un mondo che non consente facili sintesi. Meglio non consente facili scorciatoie, come spesso accade quando, per pudore, al termine comunismo viene sostituito il termine glamour di common, di comune. È infatti in quel comune – e qui fanno bene Negri e Hardt a ricordarlo – che va svelato l’arcano di come «abolire lo stato di cose presenti». Altrimenti tutto diventa effimero. Perché invece di trovarsi a un nuovo inizio, come auspica in chiusura del volume Zizek, si precipita in un angusto vicolo cieco.
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