La vita antagonista di un poeta d’America

Gil Scott Heron. È morto a 62 anni il musicista e scrittore african american. Fra le sue canzoni più famose, «The Revolution will not be televised», composta nel 1974. In lui confluivano jazz, soul e funk sotto la benedizione della «spoken word». Le etichette? Al mittente Negli anni ’60 e ’70 sostenne e rilanciò con i suoi versi e le sue note la causa dei neri negli States Nato a Chicago nel 1949, era cresciuto nel Bronx.

Gil Scott Heron. È morto a 62 anni il musicista e scrittore african american. Fra le sue canzoni più famose, «The Revolution will not be televised», composta nel 1974. In lui confluivano jazz, soul e funk sotto la benedizione della «spoken word». Le etichette? Al mittente Negli anni ’60 e ’70 sostenne e rilanciò con i suoi versi e le sue note la causa dei neri negli States Nato a Chicago nel 1949, era cresciuto nel Bronx.

Dopo un intervallo artistico di 13 anni Scott-Heron pubblicò l’anno scorso un album intitolato «I’m New Here». Un’esistenza la sua dalla temperatura altamente politica, che spiegava al mondo il sogno del black powerDopo aver disseminato di segni premonitori l’ultima curva, Gil Scott-Heron se ne è effettivamente andato venerdì sera, all’età di 62 anni, sfibrato da quegli stessi orrendi mostri che facilmente popolavano le sue canzoni. E insieme al cantante, al poeta, al romanziere, si spegne così, come si dice, nell’indigenza o quasi, una delle voci più dure e seducenti della cultura african-american degli ultimi quarant’anni. Una combinazione non confondibile, di forma e di forza, certificata da un timbro vocale senza repliche e dalla sua personale, radicale, «stilosissima» critica della società americana e di chi la governa. Un esempio di quel che può succedere quando la «great black music» incontra la scrittura creativa. E comunque roba da veri indignati d’America, indignati e americani prima che neri ma in questo caso neri, con tutto quel che di sociale, storico e musicale ne consegue. Quindi roba da studi afroamericani quanto Amiri Baraka e Langston Hugues, le figure da cui Gil Scott-Heron si lascia influenzare mentre prende scienza e coscienza all’università della Pennsylvania.
Per il resto è nato a Chicago, cresciuto nel Tennessee, sbarcato nel Bronx e pare sia figlio del primo calciatore nero mai apparso nel campionato scozzese. Il primo romanzo The Vulture precede il primo album Small Talks at 125th & Lennox, ma il primo motivo per cui va ricordato è la detonante Revolution will not be televised, i versi come sassate su un giro di basso teso e attillato che è di per sé un’istigazione al campionamento. Parte da lì e deborda nella successiva The Bottle, che con il 15mo posto raggiunto nelle classifiche rhythm’n’blues resta la performance di mercato più apprezzabile di tutta la carriera, la venerazione sviluppata in ambito hip hop e rap per la figura, lo stile, la parola cantata di Gil Scott-Heron. Ma a lui l’appellativo di «Padrino del rap» stava stretto, molto di quel che sentiva in giro era francamente mediocre per essere figlioccio suo. Però sapeva discernere tra rapper e rapper. E diceva: prima di togliermi dalla vostra strada sappiate che se proprio mi volete amare a me fa piacere. Al di là della pasta poetica, la distanza sta molto nel fatto che l’arte di Gil-Scott Heron è finemente «suonata». Fin dall’incontro con il tastierista e compositore Brian Jackson, per uno dei periodi creativi più felici, musicalmente piazzati in un punto facile da trovare ma dove è difficile mantenere a lungo un equilibrio dignitoso, in cui convergono jazz, soul e funk sotto la benedizione della spoken word, il soffio vivo della parola ai confini tra ritmo e melodia. Gli album di questo periodo, a partire da Winter in America, per arrivare a Reflections, quando le strade con Jackson si sono separate, sono quasi tutti essenziali. Poco più in là il passaggio a una casa discografica meno indipendente e più promettente, la Arista, per fare dischi che invece promessa rimangono. Grande musica nera però. Con l’ironia al vetriolo che ci vuole per raccontare, in B-Movie, come Reagan era diventato presidente non essendo disponibile John Wayne e di come la storia si era a quel punto trasformata in un filmaccio di serie B.
Il cineasta canadese Robert Mugge lo dipingeva come il «musicista più pericoloso d’America» e lui un po’ si crogiolava nell’immagine del bersaglio sulla copertina di Moving Target, occhi cattivi e dito indice puntato al centro esatto del bersaglio. Non sa che lo aspettano al varco. Sono già gli anni ’80 pieni e la lotta si fa dura. A parte i tour con Amnesia Express e qualche ritorno di fiamma incentivato dal culto che dilaga soprattutto in Europa, magari incendiato dalle misture elettroniche di Bill Laswell come in Re-Ron, la discesa agli inferi inizia lì. Proprio lui che sulle trappole della vita e del sistema sapeva ogni cosa, dove, quando e persino perché, e in più sapeva pure raccontarlo come pochi, è andato a farsi risucchiare da un cocktail di problemi personali, alcol, sostanze stupefacenti e carichi penali. Un po’ è la vendetta dell’America che aveva rimesso in discussione con una grazia e una ferocia senza eguali.
La sconfitta viene infine esibita e bruciata con l’ultima marlboro sulla copertina di I’m New Here, il disco con cui da poco aveva rotto 13 anni di silenzio e di guai. E se altre tracce evidenti della fine si trovano in un ultimo romanzo che si chiama The Last Holiday, di veramente ultimativo c’è il remix visuale operato dal videoartista Chris Cunningham sul brano New York is Killing Me, una maledizione della velocità della città con il peso invisibile ma insopportabile di ogni singolo fotogramma impilato sull’altro, Un antico delta-blues travolto da un convoglio nottambulo della metro di New York in un crescendo sonoro gotico, E in definitiva un urlo terminale senza mezzi termini, bello e doloroso quasi quanto l’ultima Billie Holiday. «… I dottori non lo sanno, ma New York mi sta uccidendo / Un mucchio di medici che girano non lo sanno che New York mi sta uccidendo / Ho bisogno di andare a casa e prendermela calma già a Jackson, Tennessee»
Resta appesa la domanda perfetta con cui aprire un’ipotetica ultima intervista: la rivoluzione non sarà trasmessa alla tv, ma qualcuno ha provato con Twitter e Facebook e pare funzioni. Sarà vero?

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