«New Deal»? Perché in America non può ripetersi

Cà era una volta in America un Basic Bargain, un patto sociale di base, secondo il quale gran parte di quello che l’economia produceva veniva distribuito al ceto medio, ai lavoratori. Il loro reddito cresceva come la produttività  ed era sufficiente a sostenere un elevato livello di consumi e ad alimentare un flusso di risparmio che consentiva di finanziare gli investimenti.

Cà era una volta in America un Basic Bargain, un patto sociale di base, secondo il quale gran parte di quello che l’economia produceva veniva distribuito al ceto medio, ai lavoratori. Il loro reddito cresceva come la produttività  ed era sufficiente a sostenere un elevato livello di consumi e ad alimentare un flusso di risparmio che consentiva di finanziare gli investimenti.

 Questo avveniva nel trentennio «fordista» , nell’Età dell’oro, tra la fine della guerra e gli anni Settanta del secolo scorso. Alla fine di quegli anni il Basic Bargain venne ripudiato e si entrò in un trentennio con caratteristiche radicalmente diverse: si fermò la crescita dei salari, la distribuzione del reddito diventò sempre più diseguale e la domanda di consumo fu sostenuta da altri meccanismi, soprattutto da una grande espansione nell’indebitamento delle famiglie. Si trattava però di una situazione precaria, perché il debito, alimentato da innovazioni finanziarie sempre più sofisticate, si basava da ultimo su redditi insufficienti e garanzie irrealistiche, come nel caso dei mutui ipotecari subprime: dopo numerose avvisaglie, il castello di carte si afflosciò nel 2008, nella grande crisi. L’enorme immissione di liquidità e la trasformazione di un’ampia parte del debito privato in debito pubblico hanno (per ora) salvato il sistema finanziario, ma non hanno impedito una recessione economica severa né hanno riavviato il sistema produttivo in una pista di sviluppo sostenibile: la crescita e l’occupazione languono e solo il ritorno al patto sociale di un tempo, al Basic Bargain, può evitare un prolungato ristagno. Questo è il riassunto più breve che si possa fare di Aftershock. Il futuro dell’economia dopo la crisi, il libro di Robert Reich— ministro del Lavoro nel primo governo Clinton— che la casa editrice Fazi ha appena tradotto. Un libro molto bello: competenza pluridisciplinare, stile brillante, capacità divulgativa, passione civile ne rendono la lettura coinvolgente e fruttuosa. E il nucleo della sua analisi — il ruolo giocato nella crisi dalla crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito di questi ultimi trent’anni — è robusto e condiviso da autori con idee politiche e orientamenti teorici assai diversi da quelli di Reich: Raghuram Rajian, per ricordare il più noto. Non sempre però dalla diagnosi corretta di un male conseguono terapie realistiche per curarlo: se il male è celato nei meccanismi profondi di un’economia di mercato e di una società capitalistica, la politica — il medico che dovrebbe intervenire— potrebbe essere condizionata dagli stessi meccanismi e rifiutarsi di adottare le terapie necessarie. Anche se in larga misura condivido le terapie keynesiane che Reich suggerisce per gli Stati Uniti, dubito che in quel Paese ci siano oggi le condizioni politiche per metterle in atto. Per capirlo facciamo un passo indietro, e chiediamoci anzitutto perché il Basic Bargain venne ripudiato alla fine degli anni Settanta. La risposta è che venne ripudiato perché era entrato in crisi. Il Basic Bargain era stato il frutto non soltanto di politiche keynesiane mirate al mercato interno, al benessere dei lavoratori e dei ceti medi americani, ma di un disegno egemonico internazionale nato dalla riflessione dei grandi politici e intellettuali liberal anglosassoni del tempo— Roosevelt e Keynes sono gli eroi eponimi di quella straordinaria fase storica— sui conflitti tra le potenze europee degli anni Trenta: quei conflitti che avevano condotto al collasso del libero commercio internazionale, al dilagare della disoccupazione e, indirettamente, all’affermazione di Stati autoritari e totalitari. Gli Stati Uniti emergevano dalla Seconda guerra mondiale in condizioni ideali per evitare gli errori che erano stati commessi dopo la Prima: non solo la rivoluzione teorica keynesiana sembrava offrire gli strumenti per sostenere l’occupazione nel caso di eventuali crolli della domanda interna; ma la loro potenza militare, politi- ca ed economica consentì di disegnare nella conferenza di Bretton Woods — la guerra non era ancora finita — un sistema di relazioni economiche e finanziarie internazionali che avrebbe stimolato una formidabile ripresa del commercio mondiale e, con questo, una straordinaria accelerazione dei consumi e degli investimenti privati. Lo Stato e l’intervento pubblico fornivano una rete di sicurezza e un contesto regolativo favorevole; ma sarebbe stato il mercato a fare il grosso del lavoro, ad alimentare la macchina della prosperità, a smentire le profezie di crisi del capitalismo allora molto diffuse. E a contrastare il fascino che i successi bellici e postbellici dell’Unione Sovietica allora esercitavano sui ceti popolari e intellettuali di molti Paesi occidentali. Si trattò di un capolavoro di intelligenza politica, che estese il Basic Bargain a tutti i Paesi industrializzati nella sfera di influenza americana, vinti o vincitori che fossero. Un capolavoro basato su circostanze irripetibili, su una concentrazione di potenza negli Stati Uniti destinata ad attenuarsi a mano a mano che il Basic Bargain risvegliava le capacità produttive, le condizioni competitive e le ambizioni politiche degli altri grandi Paesi. E a mano a mano che, all’interno di tutti loro, e degli Stati Uniti soprattutto, si allontanava il ricordo della grande depressione e il pieno impiego cominciava ad apparire non già il frutto prezioso di una politica intelligente, ma una condizione quasi naturale alla quale l’economia spontaneamente tendeva. Furono molte le forze che concorsero a erodere il Basic Bargain. Al livello internazionale, i crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti americana, soprattutto provocati dalla spesa per armamenti e dalle guerre, da quella del Vietnam in particolare. Al livello interno, le pressioni inflazionistiche, alimentate dalle politiche monetarie e fiscali espansive e dalla piena occupazione. Al livello ideologico, le critiche che montavano contro le basi intellettuali di quel patto, le teorie keynesiane, e contribuirono non poco a minarne l’autorevolezza. A queste si aggiungeva la crescente insofferenza dei ceti imprenditoriali e finanziari per i vincoli che imponeva la regolazione pubblica dell’attività economica, ingrediente essenziale del Basic Bargain. Gli anni Settanta videro una congiunzione massiccia di queste forze: il crollo del sistema monetario internazionale disegnato a Bretton Woods, la reazione dei Paesi esportatori di petrolio in difesa dei loro redditi erosi dalla perdita di valore del dollaro, l’inflazione dilagante in tutto il sistema internazionale, la prima grave recessione dal dopoguerra. Col senno di poi non meravigliano le vittorie politiche dei conservatori inglesi e dei repubblicani americani, della Thatcher e di Reagan, nelle elezioni del 1979 e del 1980, entrambe ottenute sulla base di una aggressiva piattaforma neoliberale. E fu la vittoria di Reagan, il passaggio del Paese egemone ad una politica mirata allo smantellamento delle regolazioni interne e internazionali che avevano sostenuto il Basic Bargain, quella che spostò l’intero capitalismo internazionale verso un nuovo regime di politica economica, il regime neoliberale e globalizzato nel quale abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni e che è la causa profonda della crescita delle diseguaglianze denunciate da Reich. In un clima di benessere e piena occupazione, ma caratterizzato da una forte inflazione e disordini sociali, l’appello alla disciplina, all’ordine, alla severità monetaria, risultò elettoralmente credibile: il «no more inflation» soppiantò il «no more unemployment» che aveva assicurato le prevalenza dei governi liberal, democratici e socialdemocratici del trentennio postbellico. Oltretutto (… forse, prima di tutto) l’Unione Sovietica, in piena crisi, aveva perso ogni fascino agli occhi dei ceti popolari e intellettuali dei Paesi occidentali: perché, allora, scontentare i capitalisti, rinunciare ai benefici che una nuova fase di scatenamento degli animal spirits, della «distruzione creatrice» , poteva apportare? Questa è la ragione del passaggio ad un regime neoliberale. C’è qualcosa che rende credibile, oggi, il ritorno a un regime più simile al Basic Bargain, come quello verso il quale Robert Reich vorrebbe avviare il suo Paese mediante le riforme proposte nella terza parte del libro, mediante un nuovo «New Deal» ? Esistono le condizioni politiche, sociali e culturali, interne e internazionali, che consentano di attuare le riforme che Reich descrive? Se mi sono soffermato sulle condizioni che resero possibile il Basic Bargain postbellico, è stato proprio per mostrare quanto esse furono eccezionalmente favorevoli. Oggi non lo sono. È vero, oggi c’è una crisi, una grave recessione che avrebbe potuto (e forse potrebbe ancora) trasformarsi in una vera e propria depressione: questo dovrebbe favorire una risposta radicale, un mutamento profondo del modello di sviluppo. Resta però ancora credibile una politica che contrasti la crisi solo nel luogo in cui è esplosa, nella finanza, e non affronti il problema della distribuzione del reddito, la causa strutturale su cui insiste Robert Reich. Obtorto collo, le classi dirigenti americane hanno accettato una riforma del sistema finanziario che ne riduce in modo significativo i rischi sistemici manifestati dalla crisi, anche se certamente non li sradica del tutto. E hanno accettato una riforma del sistema sanitario importante: ma più nello spirito di eliminare una lacuna intollerabile nel sistema di protezione sociale — da tempo sull’agenda politica — che in quello di rimuovere una causa di diseguaglianza. Un’analisi della crisi come quella di Reich è però ben lontana dall’essere accettata e il ritorno ai modelli di intervento pubblico del Basic Bargain suscita ancora un’avversione intensa, e non limitata al Partito repubblicano. Ed è anche vero che la diseguaglianza distributiva è fonte di tensioni e populismo irrazionale. Ma tra i ceti dirigenti siamo assai lontani dal consenso che si realizzò sul modello di sviluppo keynesiano nell’immediato dopoguerra. Pur ammettendo che una regolazione pubblica più stringente può essere necessaria nel settore finanziario, gran parte degli economisti non si sono allontanati dalle concezioni teoriche anti-keynesiane prevalenti nell’ultimo trentennio. E ovviamente i ceti favoriti da una distribuzione diseguale, di fatto gran parte della classe dirigente, avversano in larga misura politiche fiscali più egualitarie. Le sofferenze provocate dalla disoccupazione e il risentimento suscitato dalle diseguaglianze non trovano dunque risposte costruttive e condivise nella politica e nelle classi dirigenti: se si valutano le reazioni dei repubblicani, e le esitazioni dei democratici, nei confronti delle politiche di Obama, sembra difficile immaginare una situazione nella quale i politici raziocinanti dei due grandi partiti facciano fronte comune rispetto al montare del populismo paranoide, della politics of anger («politica della rabbia» ), descritti con efficacia nella seconda parte di Aftershock. Un fronte che condivida politiche ridistributive e interventi pubblici dell’intensità di quelli che Robert Reich vorrebbe attuare. A questo si aggiunga una situazione internazionale radicalmente diversa da quella dell’immediato dopoguerra. Gli Stati Uniti sono ancora la grande potenza egemone, quella intorno alla quale ruota l’intero sistema di relazioni economiche e politiche internazionali. Ma da tempo non sono più in grado, e lo sono sempre meno, di imporre agli altri Paesi un regime di politica economica internazionale come quello che consentì di sostenere il Basic Bargain del dopoguerra. L’epicentro della grande crescita si è trasferito in Asia. E l’Europa, l’area in cui il Basic Bargain conobbe i suoi maggiori successi e il suo radicamento culturale più profondo, è politicamente muta. Queste sono le ragioni del mio pessimismo. Temperato dalla fiducia nella qualità democratica della grande nazione americana. Temperato dalla vittoria di Barack Obama nelle ultime elezioni presidenziali americane. La vittoria della populista Margaret Jones — un avatar di Sarah Palin — nelle elezioni del… 2020, descritta da Robert Reich nel primo capitolo della seconda parte di Aftershock, resta per ora un terrorizzante esercizio di fantapolitica.

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