"Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci"
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell'autore della "Metamorfosi" ">

Philip Roth. “Perché mi affascina la magia di Kafka”

“Bisogna sempre partire dagli esseri umani. Se non c’è vita non è possibile creare della buona arte”

“Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci”
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell’autore della “Metamorfosi”

“Bisogna sempre partire dagli esseri umani. Se non c’è vita non è possibile creare della buona arte”

“Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci”
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell’autore della “Metamorfosi”
NEW YORK Philip Roth aveva appena compiuto quaranta anni quando scrisse Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, uno dei suoi scritti più inventivi, sofferti e bizzarri, che uscirà per Einaudi (pagg. 40, euro 8, traduzione di Norman Gobetti)). In quel periodo scoprì una fotografia dello scrittore ceco scattata quando Kafka aveva la sua stessa età. L´immagine lo colpì profondamente, e decise di scriverne: «È il 1924, con ogni probabilità l´anno più dolce e pieno di speranza della sua vita adulta, e l´anno della sua morte». La foto comunica in primo luogo angoscia, e Roth riflette sulla tragedia che avrebbe sconvolto il mondo da lì a pochi anni, che Kafka evitò a causa della morte per tubercolosi: «C´è un tratto familiare ebraico nel naso, un naso lungo e leggermente appesantito in punta – il naso di metà dei ragazzi ebrei che erano miei amici alle superiori. Crani cesellati come questo furono spalati a migliaia dai forni; se fosse sopravvissuto, il suo sarebbe stato fra quelli, insieme ai crani delle tre sorelle minori. Ovviamente pensare a Franz Kafka ad Auschwitz non è più orribile che pensare a chiunque altro ad Auschwitz. Ma lui morì troppo presto per l´olocausto».
Questo senso di cupa ineluttabilità e della relazione tra un dramma personale ed una tragedia universale è l´elemento principale di un testo strutturato in due sezioni: una riflessione su Kafka uomo e scrittore (la prima parte è il testo di una lezione all´Università della Pennsylvania) ed una folgorante invenzione letteraria, nella quale si immagina che Kafka si sia trasferito in America, divenga a sua volta docente, nonché amico della famiglia Roth, al punto che i genitori del futuro scrittore americano immaginano di presentargli Rodha, una zia nubile, perché convoli con lei a nozze. Nel breve testo Roth è un bambino di nove anni che insieme agli amici ribattezza Kafka Dr. Kishka, termine yiddish per “intestino”, a causa dell´alito pesante. Il giovane Roth è tuttavia affascinato da Kafka, al punto da imitarne lo strano accento e dai suoi racconti scopre cosa sta succedendo in Europa. «Ovviamente tutto questo è immaginario» racconta lo scrittore nel suo appartamento dell´Upper West Side «ma è assolutamente vera la crescente fascinazione che ho vissuto nei confronti di Kafka, al punto da voler visitare i luoghi in cui ha vissuto e conoscere alcuni parenti».
Che importanza ha avuto per lei Kafka come scrittore?
«L´ho sempre considerato un mago, come Beckett e Bellow: quando lo leggi cerchi di entrare nella sua scrittura e nel suo mondo per capirne i segreti, senza tuttavia riuscirvi. C´è qualcosa di magico, anzi di miracoloso nel suo universo letterario. Le prime cose che ho letto sono stati i racconti: La Metamorfosi e Nella Colonia Penale, poi il Processo, Il Castello, America, le lettere e quindi la biografia di Max Brody. Kafka mi affascina ancora di più come persona, con i suoi tormenti ed il suo particolarissimo punto di vista sul mondo. All´inizio degli anni settanta sono andato ogni primavera a Praga, dove ho conosciuto Milan Kundera ed altri scrittori oppressi dalla dittatura comunista. Rimasi molto colpito dalla loro disperazione e questo mi avvicinò ulteriormente a Kafka. Conobbi anche Vera Saudkova, una delle sue nipoti, che aveva perso il lavoro per questioni politiche. Mi raccontò della madre, e delle altre due sorelle di Kafka, morte ad Auschwitz. Lei era riuscita miracolosamente a sopravvivere perché il padre non era ebreo. In quel periodo cercai di capire l´uomo ancora prima dello scrittore: ricordo che mi mostrò le foto, e i suoi luoghi di lavoro. Feci lo stesso anni dopo, quando conobbi, a Londra, Marianne Steiner, un´altra nipote, figlia della sorella Wally.
E. L. Doctorow ha detto che Kafka non appartiene ad alcuna nazionalità, perché è universale.
«È certamente universale, perché in grado di parlare a chiunque. Era tedesco, ebreo e ceco. Sono elementi essenziali per comprendere la sua intimità e la sua grandezza. La sua lingua era il tedesco, ma quando scriveva in ceco la sua fidanzata Milena supervisionava la scrittura».
L´elemento ebraico dell´opera e della personalità di Kafka hanno avuto molto peso nel modo in cui lei racconta il suo rapporto con l´ebraismo?
«Non ho mai messo le due cose in relazione diretta, certo in Kafka l´elemento ebraico è determinante. Per quanto mi riguarda, è evidente che si tratta del tema centrale di tutto il mio lavoro».
Che importanza ha avuto nella sua vita l´insegnamento?
«Ho sempre amato insegnare. Ho iniziato a Chicago subito dopo il servizio militare, ed avevo appena ventiquattro anni. Poi ho insegnato all´Università della Pennsylvania per dodici anni. È stata la mia vera educazione letteraria: dovevo studiare gli autori che insegnavo, per essere in grado di discutere con gli studenti».
Quali erano gli autori che prediligeva insegnare?
«Scrittori europei: tra gli italiani Ignazio Silone, Primo Levi e Carlo Levi. Tra i francesi Colette, Genet, Celine e Mauriac».
Ha avuto a sua volta buoni maestri?
«Ho studiato al Bucknell College, in Pennsylvania: non era una grande scuola, ma nel mio dipartimento c´erano degli ottimi professori, e ho capito quanto possa essere determinante una buona educazione. Ricordo in particolare le lezioni su Beowulf e Virginia Woolf».
Lei immagina che Kafka inviti la zia Rodha al cinema. Come mai?
«Perché era il modo per evadere dalla quotidianità, di sognare. Il luogo dove ci si poteva innamorare. Rodha è un personaggio inventato, ma avevo una zia che le assomigliava molto, che rimase nubile tutta la vita».
Kafka incoraggia la zia Rodha a recitare nelle Tre Sorelle di Cechov.
«È una idea che mi è venuta da una lettera di Kafka, nel quale cita Cechov, con evidente ammirazione».
Nella sua storia immaginaria in America, Kafka rimane un uomo alienato dalla società che lo circonda.
«Altrimenti avrei tradito il vero Kafka. La mia storia cerca di riproporre alcune sue caratteristiche: le angosce, le incertezze, le fragilità di un uomo tormentato, ma anche alcune insospettate certezze».
Saul Bellow ha scritto che “nella storie della tradizione ebraica il mondo, e persino l´universo, ha un significato umano. L´immaginazione ebraica si è resa colpevole di “sovraumanizzare” ogni cosa”.
«In questo sono diverso da lui: io temo che la vita ci porti troppo spesso a “sottoumanizzare”. Credo in altre parole che si debba partire sempre dagli esseri umani».
La cosa più tragica è che il Kafka immaginario “Non lascia nemmeno libri: niente Processo, niente Castello, niente diari”. Sembra che l´arte sia più importante della stessa vita.
«No, assolutamente no. Come scrittore, e soprattutto come appassionato di Kafka lamento la possibile assenza di grandissimi libri, ma la vita viene sempre prima. Altrimenti non sarebbe possibile fare buona arte».

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