I demoni della Romania

Come si finisce in fondo al sacco? Come ci si riduce a lavorare, vivere e morire a decine e decine di metri sotto terra, dove persino i topi respirano a stento, dove il grisù rimane sempre in agguato – più pesante dell’aria, più insidioso dei crolli, più scaltro degli uomini e spesso anche dei topi – alla base delle gallerie e la và¢lva, il mostro che attraversa la mitologia popolar-mineraria romena, disturba il sonno e turba la veglia degli operai addetti agli scavi? Come si può progettare, sperare o anche solo rianimare l’istinto di fuggire, da un posto del genere? Semplicemente, dalla minera non si fugge. Mai. 

Come si finisce in fondo al sacco? Come ci si riduce a lavorare, vivere e morire a decine e decine di metri sotto terra, dove persino i topi respirano a stento, dove il grisù rimane sempre in agguato – più pesante dell’aria, più insidioso dei crolli, più scaltro degli uomini e spesso anche dei topi – alla base delle gallerie e la và¢lva, il mostro che attraversa la mitologia popolar-mineraria romena, disturba il sonno e turba la veglia degli operai addetti agli scavi? Come si può progettare, sperare o anche solo rianimare l’istinto di fuggire, da un posto del genere? Semplicemente, dalla minera non si fugge. Mai. 

Già l’abbé Prevost, nel XVIII secolo, in un racconto che almeno nella letteratura europea può essere a ragione considerato un modello di gran parte della narrazione della vita nel sottosuolo, le Aventures intéressantes des mines de Suède, aveva descritto l’esistenza di misteriose comunità di sepolti vivi, uomini avvolti dal torpore e scossi solo quando uno dei membri si approssimava troppo a quello stadio panico e ferino con il quale, in un modo o nell’altro, tutti finiranno per scontrarsi là -bas, laggiù in fondo, come direbbe Huysmans. «Vivendo ai limiti della bestialità», osserva ora il romeno Rasvan Popescu, «perché stupirsi che qualcuno vada oltre?». Forse l’oltre di cui parla Popescu, questo rendersi simili a una belva oltrepassando incautamente una soglia, è l’unico modo per fuggire. Un modo paradossale, perverso, crudele, ma date certe condizioni e limiti, l’unico. Poiché «chi è nato qui, non va da nessuna parte, impara questo lavoro, sottoterra. Sopra, non valgono un soldo bucato. Dove vuole che vada?». A parlare, perentorio, è l’ingegnere capo, che risponde così ai dubbi di Costa, il giovane procuratore incaricato di indagare – o meglio di espletare in tempi rapidi le formalità di rito – in seguito alla morte di un minatore. 
Un incidente come tanti, un infortunio sul lavoro come altri nella miniera di carbone della Valle del fiume Jiu, al centro del coinvolgente e inquietante romanzo di Popescu, Fundesac (Bonanno, pp. 160, euro 14), finalmente tradotto anche in Italia. Non si fugge, dalla miniera, nemmeno quando Enache, il capo della sicurezza mineraria decide di trasformare i minatori in un «distaccamento armato di bastoni e manda mille persone all’ospedale». Ma questo, osserva caustico Popescu, «è politica». Politica era la decisione di Enache di mobilitare gli uomini, per «andare a Bucarest, a spaccare la testa agli intellettuali». Siamo nei primi anni Novanta, quando i minatori di Valea Jiuliu vennero trasportati in massa nella capitale romena per sedare con la violenza le manifestazioni degli studenti contro il regime. Perché successe? Cosa accadde dopo? Ma soprattutto, il lettore è portato a poco a poco a chiedersi a che cosa siano dovute – non certo a casualità e rischi impliciti al «mestiere» – la prima e le successive morti che sconvolgono la vita «in fondo al sacco», nella miniera di Fundesac, inferno verticale di ascensori e montacarichi, di ventilatori e vagoni, di sale mensa fetide e docce comuni, dove ancora nei primi anni Novanta del secolo scorso gli uomini non osavano mai guardarsi in volto, e tutto assumeva la tonalità grigio-scura della tenebra o quello giallo-zolfo dell’inferno. 
I condannati del sottosuolo
Petrosani, Uricani, Vulcan, Aninoasa, Lupeni e Petrila sono le città di una zona che, fin dal suo insediamento, Nicolae Ceausescu volle considerare alla stregua di un vero e proprio laboratorio di sperimentazione sociale, «importando» uomini sul territorio, affinché dessero vita a una comunità multiculturale e priva di conflitti. Non fu così, per tante ragioni. Una zona e un «mondo senza cielo» (questo era il titolo della prima stesura del romanzo che, in forma di reportage, venne rifiutato dalle case editrici) in cui Popescu, nato a Bucarest nel 1962, ha non solo praticato da scrittore, ma vissuto e, soprattutto, lavorato, proprio nelle miniere, in veste di geologo. Tradotto con rigore, eleganza e stile da Marco Cugno, il romanzo è apparso nel 1996 per i tipi della casa editrice Humanitas di Bucarest, con il titolo Prea târziu (Troppo tardi), e portato sugli schermi di Cannes quello stesso anno dal regista Lician Pintilie. 
L’orizzonte descritto da Popescu è piatto, senza cielo appunto, e soprattutto senza trascendenza che non sia inesorabilmente diretta verso il basso. È possibile vivere e abitare in un mondo del genere? Ma soprattutto, su cosa, più che su chi, indaga Costa? Sul sistema stesso? O su un uomo che si è spinto troppo oltre, fino a diventare una belva? In controluce, dentro – e non soltanto «dietro», come si usa spesso dire – la trama del suo romanzo, attraverso la lente del giovane procuratore Costa, Popescu seziona pezzo per pezzo il sistema nel quale si è formato e, dopo l’89, ha visto dissolversi. Gli occhi di Costa colgono questo sistema nella sua fase più critica, quando l’apparente cesura, in alcuni apparati strategici dello Stato, rivela che da Ceausescu alla democrazia almeno nelle miniere poco è cambiato, e certe rivoluzioni, se viste da certi angoli bui, assomigliano più a teneri passaggi di testimone. 
Anche La crociata dei bambini (traduzione di Mauro Barindi, ISBN edizioni, pp. 848, euro 16) ha come scenario la Romania di fine XX secolo. L’orizzonte, qui, non è infernale e al tempo stesso geometrico, come quello di Popescu. Al contrario, l’inferno assume una consistenza sferica, la mancanza di trascendenza e di dimensione verticale è data dal girare a vuoto e dal continuo rimpallo tra realtà e virtuale, rimpallo che costituisce uno pseudoambiente che finisce per coincidere, inevitabilmente, con la sola realtà possibile per i protagonisti. 
Terzo romanzo di Florina Ilis, bibliotecaria nata a Bucarest nel 1968, Cruciata copiilor venne pubblicato nel 2005, subito imponendosi all’attenzione della critica e del pubblico internazionale. Grazie a uno stile diretto, ma molto particolare – assenza o quasi di punteggiatura, esclamativi a parte, capacità di dosare e cambiare continuamente le scene, senza saturarle – il romanzo che ha fatto seguito all’esordio con Coborîrea de pe cruce (2001) e a Chemarea lui Matei (2002) è, osserva Stefan Borbély nel saggio raccolto nel collettaneo Il romanzo romeno contemporaneo (a cura di Nicoletta Nesu, edizione italiana a cura di Angela Tarantino, Bagatto libri) una «eccellente radiografia di una Romania caotica, post-rivoluzionaria, colta nella situazione di gestire una crisi sociale tipica». È un mondo che delira per eccesso di normalità. Si potrebbe aggiungere che quella di Florina Ilis, bibliotecaria a Cluji, oltre che esperta di cyberpunk e cultura giapponese, è anche un’ottima analisi del sistema dei media post-narrativi, dei simulacri e di tutti quegli pseudoambienti totalizzanti – dalla scuola, al cosiddetto «agone pubblico» – in cui ci troviamo immersi. 
L’imperialismo dell’età adulta
Nel romanzo ipertestuale e polifonio della Ilis, attraverso una schiera impressionante di personaggi, è tracciata dunque la contromappa di una Romania «disorientata, disorientata, terrificante, per molti versi insopportabile». La crisi sociale tipica cui fa cenno Borbély è, di fatto, riassumibile nella situazione-chiave del romanzo della Ilis. Situazione da cui, a cascata, discendono una serie innumerevole di sotto-situazioni che rendono il romanzo affascinante e stratificato. La situazione-chiave è il dirottamento di un treno carico di scolari diretti in vacanza, da parte di alcuni ragazzi di strada, determinati a usare formule magiche e pratiche alla Harry Potter per condurre una loro personalissima crociata contro il mondo degli adulti. Il «caso», da bravata, diventa a poco a poco sociale, politico, infine totale. Finisce sulle prime pagine dei giornali, le immagini invadono gli schermi, su internet impazzano post e commenti, e il tutto alimenta dibattiti sulla deriva delinquenziale della gioventù post-comunista, mette in crisi polizia, protezione civile e governo, gonfia il petto degli «esperti», muove l’opinione pubblica, rende infantili gli «adulti» e «adulti» i ragazzi, suscitando domande, ma soprattutto generando una mole ingestibile – e indigeribile – di risposte. Il sistema delira e a farlo delirare sono ragazzetti spinti da un impulso messianico, decisi a tutto, pur di portare a compimento la loro guerra, nel cuore stesso di quello che giungono a considerare come un «imperialismo dell’età adulta». Anche i ragazzi della Ilis cercano una fuga e la loro catabasi che altro è se non un tentativo di andare oltre? Di sottrarsi sempre e comunque a una normalità che, non relegando più l’animalità in una miniera, persino in superficie è diventata inumana? Ma la fuga, anche nel caso dei bambini della Ilis, si dimostrerà impossibile. E persino il ritorno a casa. La condizione adulta sarà davvero conquistata, ma a un prezzo molto alto.
È davvero possibile la fuga? È davvero possibile, il ritorno? Quando Traian Manu atterra all’aeroporto di Bucarest, nell’estate del 1986, dopo quaranta e passa anni d’esilio, le cose sono davvero cambiate. E non solo per il tempo trascorso. Ora Manu, protagonista dell’Incontro (Nottetempo, pp. 160, euro 18) di Gabriela Adamesteanu – in un’altra bella traduzione, stavolta di Roberto Merlo -, è un cittadino italiano. Il suo passaporto lo qualifica così, ma Traian Manu sogna il ritorno. è uno stimato professore di biologia e si illude, che a richiamarlo in patria, sia stata la sua fama. Dietro l’invito a presenziare a una serie di conferenze, in realtà, è tenuto sotto osservazione dal regime. Manu vorrebbe rivedere, vorrebbe incontrare, vorrebbe – finalmente – ritrovarsi e risentirsi a casa, ma non può. Il regime di Ceausescu è alla fine, ma i colpi finali sono quelli più duri. Colpi che consegnano un paese a una nostalgia senza ritorno. La stessa che colpisce Traian Manu, scosso e scolvolto da un universo insensato, fatto di dossier, informative di polizia, depistaggi e controdepistaggi.
Impossibile ritorno
L’esilio, scriveva Norman Manea, è un «impossibile ritorno». E da parte sua, il Mircea Eliade del Journal posto in esergo dalla Adamesteanu scriveva che ogni esiliato, è un Ulisse in cammino verso Itaca, ma al tempo stesso ogni esistenza reale riproduce non solo questo cammino, ma l’intera Odissea. A ognuno, concludeva Eliade, in quella che è una delle chiavi concettuali del bel libro di Gabriela Adamesteanu, è concessa «l’opportunità di diventare Ulisse», ma per rendersene conto bisogna saper «leggere i segni», vederli e leggerli «anche quando non ci sono». Anche nel delirio di un sistema che delira, percependo – è sempre Eliade a parlare – «un messaggio nello scorrere amorfo delle cose e nel flusso monotono dei fatti storici». Perché può anche succedere che la letteratura riscatti, ciò che la storia e la vita hanno inesorabilmente condannato. Ed è esattamente questo che fa Doina Rusti in Zogru, ottimamente curato da Roberto Merlo ancora per Bonanno (pp. 240, euro 18). Zogro è un immortale, un «uomo che non sa morire», creatura «emersa dal ventre caldo della terra, un giorno di primavera della settimana Santa del 1460». Da allora, Zogru percorre il flusso della storia, entra nel corpo degli uomini, né condivide le passioni, tesse col suo trasmigrare un filo comune tra le individualità che abita. Apre a quello del mito, lo spazio altrimenti angusto della storia. Accede a quella temporalità altra del fantastico che, in fondo, non è se non un riportare all’umano il demone di un legame – lo si è visto in Popescu, nella sua trascendenza verso gli inferi – altrimenti infausto con la terra. In special modo se quella terra ha nome Romania.

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