Parla l’autrice russa Marina Palej ospite al Lingotto. Un romanzo-matrioska su un mondo sospeso tra un convulso presente e il paradosso di un futuro già noto
Parla l’autrice russa Marina Palej ospite al Lingotto. Un romanzo-matrioska su un mondo sospeso tra un convulso presente e il paradosso di un futuro già noto
«Scrivendo prosa, non sono mai riuscita a fingere che non esistesse la poesia». Quest’«ammissione» di Marina Palej, contenuta in una delle rarissime interviste da lei rilasciate, risulta assai utile per accostarsi al suo Klemens, ammaliante romanzo-matrioska risalente al 2007 e ora pubblicato da Voland nell’eccellente traduzione di Emanuela Bonacorsi. E, in effetti, un salvacondotto lirico per penetrare in questo testo complesso, situato all’incrocio di più piani narrativi, è fornito senz’altro da un distico dal Poema della montagna di Marina Cvetaeva che il protagonista Mike, ebreo russo e traduttore dall’inglese, rilegge come per caso agli albori della sua ossessione amorosa per l’affittuario tedesco Klemens: «Non ti ricordo separato dall’amore. /Segno d’uguaglianza». Ciò che scaturirà da lì a breve non è che la logica conseguenza del tentativo di rimuovere ogni barriera – fisica, linguistica, spirituale – tra identità individuale e alterità, per fondersi con l’oggetto amato. Inutile dire che tale disegno si rivelerà ampiamente utopico: troppe le incomprensioni culturali tra l’intellettuale ebreo di Leningrado (che, all’inizio, attende l’ignoto coinquilino giunto da Berlino ripercorrendo mentalmente immagini cinematografiche di massacri nazisti) e l’enigmatico Klemens (accusato in seguito dal suo sarcastico padrone di casa di derivare la sua visione della Russia dalla trasposizione hollywoodiana del Dottor Zivago).
Le pagine più godibili del romanzo – oltre alle filippiche che Mike, autentico erede dell’Uomo del sottosuolo, scaglia contro i genitori e la moglie – sono quelle ispirate a gustosi fraintendimenti, come quando il protagonista tenta di abbellire la spoglia stanza dell’ospite addobbandola con ignobile paccottiglia, come se la pericolosità di quell’alieno potesse essere disinnescata da una congrua razione di kitsch locale. Incapace di venire a capo del mistero che circonda Klemens («Una nebbiolina cerulea, l’aura di un tempo radicalmente altro, aleggiava ovunque comparisse lui»), Mike sarà infine costretto a precipitarsi a Berlino cogliendo il pretesto di un seminario sulla traduzione, per vedere la sua offerta di amore respinta dall’impietosa diagnosi che l’amico dà di sé: «Sono autistico». Gli indizi per leggere Klemens come una variazione assai riuscita sul tema dell’eterna incomprensione tra Russia e Europa Occidentale ci sono tutti; eppure l’autrice (nata nel 1955 a Leningrado e residente in Olanda dal 1995) respinge qualsiasi interpretazione del testo in termini anche solo latamente «geopolitici».
Non appena Klemens fa la sua comparsa, Mike ha l’impressione di imbattersi in un tempo e uno spazio radicalmente nuovi. Quest’osservazione allude agli anni Novanta (epoca in cui è ambientato il romanzo) come periodo di transizione per l’intero paese?
Si tratterebbe di un’ipotesi interessante, se non fosse che tutte le metafore che utilizzo hanno un significato universale, metafisico ed esistenziale, e non strettamente sociale. A maggior ragione considerando l’origine squisitamente irrazionale di questo testo che per me è una specie di figlio prediletto, ma assolutamente non pianificato. Se pensiamo a Klemens come a un romanzo-matrioska, ogni riferimento geopolitico si situa all’interno, al livello della bambola più piccola, mentre quella che racchiude tutte le altre è la rabbiosa necessità di amore, indirizzata verso ciò che è destinato a rimanere inconoscibile e inattingibile.
La seconda parte del romanzo, un sorta di intermezzo non a caso intitolato In between, si conclude con il Manoscritto di Mar’jana Galickaja che mi pare decisamente autobiografico, almeno là dove lei ripercorre le peregrinazioni della sua adolescenza, quando insieme a sua madre le è capitato di vivere nei punti più disparati e remoti dell’Urss. Quale ruolo svolge la lettura di questo testo nell’evoluzione di Mike come personaggio?
Nel Manoscritto ho voluto riproporre in uno stile diverso i temi che tormentano lo stesso Mike: l’invincibile sensazione di orfanezza che l’uomo prova su questa terra, il suo essere gettato nel mondo, simile a una marionetta mossa da fili invisibili. Shakespeare riteneva che le forze che innescano la tragedia (ossia le passioni in quanto tali) fossero radicate nell’individuo stesso, mentre Nabokov, scrittore che amo molto, da uomo del XX secolo riteneva che il «burattinaio» si trovasse rigorosamente all’esterno. D’altronde, è possibile l’una e l’altra cosa, almeno nella situazione esistenziale sperimentata dall’io narrante.
I suoi personaggi che abitano a Leningrado/Pietroburgo portano spesso incongrui nomi inglesi (Mike e suo figlio Edward in Klemens, Patrick in Cabiria di San Pietroburgo). Un’allusione al clima provinciale e soffocante dell’ambiente in cui vivono?
in effetti, in Cabiria l’uso di nomi d’origine straniera rimanda a quel clima da operetta, ridicolo, kitsch e, a suo modo commovente, in cui vivono immersi i miei personaggi. Per quanto riguarda Klemens, invece, avevo bisogno che il protagonista avesse un nome «internazionale» per far capire la portata universale del tema del romanzo. E per questo ho scelto Mike, un nome che amo molto e che ho dato anche al mio unico figlio.
Lei ha affermato che il suo luogo natale è Ingermanlandia, ossia la regione storica di Pietroburgo, compresa tra il golfo di Finlandia e il lago Ladoga e cantata a suo tempo anche da Théophile Gautier. Che posto occupa questa «piccola patria» nella sua opera?
Enorme. Ho avuto la fortuna di trascorrere l’infanzia sulle rive del Baltico, in mezzo all’ineguagliabile natura di questa regione – triste, monotona, di quell’oscura tetraggine tipica delle fiabe. Un paesaggio che ha influito molto sulla mia visione del mondo. A proposito, nel mio ultimo romanzo, Il tributo della salamandra, cerco di descrivere quel tipo di natura in modo paradossale, riprendendo la tradizione paesaggistica dell’Ottocento e riproponendola dal punto di vista di un individuo del XXI secolo.
Lei oggi scrive in russo in uno sperduto villaggio olandese di nome Aassluis. In che modo l’emigrazione ha inciso sul suo rapporto con la lingua?
Si tratta di un tema che definirei inesauribile, seducente e sfavillante. Da quando vivo qui il mio russo è stato travolto da una valanga di nuovi suoni e significati e non ha potuto che uscirne arricchito. Inoltre, un piccolo interstizio» di distanza tra noi e la nostra cultura d’origine è sempre salutare, se non indispensabile, come principio straniante e rigenerante. Ma il problema che si pone a questo punto è: a chi trasmettere quest’esperienza, e in che modo?
Klemens e Mike si capiscono soltanto attraverso la poesia. Che cos’è la letteratura oggi? Un’occupazione per traduttori e individui affetti da autismo?
Pare di sì. Ed è una catastrofe universale. Si stanno avverando le premonizioni più fosche espresse da H. G. Wells in La macchina del tempo. Eppure sembra esistere ancora una categoria che si interessa alla letteratura. Sono gli omosessuali o, almeno, gli omosessuali platonici, come nel mio romanzo. Perché l’individuo che riflette, e che quindi ha bisogno della letteratura come specchio, è inevitabilmente ripiegato su se stesso. Ergo, per definizione, ogni essere pensante non può che essere «omosessuale» nel senso etimologico del termine.
0 comments