Quella polizia svizzera che sapeva spiare

Jean-Stéphane Bron Un incontro con il regista elvetico che, attraverso i suoi film, propone una critica «galante» al sistema socio-economico dell’Europa

In «Connu nos service» c’è la storia di Claude, attivista del movimento studentesco che scopre, 50enne, di essere stato «intercettato», compresa una telefonata con la madre «Come si può filmare il pensiero politico? Non volevo consegnare un ricordo malinconico di quegli anni. Mi interessava sviluppare una riflessione che fosse attuale»

Jean-Stéphane Bron Un incontro con il regista elvetico che, attraverso i suoi film, propone una critica «galante» al sistema socio-economico dell’Europa

In «Connu nos service» c’è la storia di Claude, attivista del movimento studentesco che scopre, 50enne, di essere stato «intercettato», compresa una telefonata con la madre «Come si può filmare il pensiero politico? Non volevo consegnare un ricordo malinconico di quegli anni. Mi interessava sviluppare una riflessione che fosse attuale»

 Ha un aspetto elegante particolare, Jean-Stéphane Bron, documentarista svizzero, classe 1969, autore di cinque film (per ora) di cui quattro sono stati presentati alla Cineteca di Bologna lo scorso weekend per l’omaggio a lui dedicato a cura del critico italo-svizzero Lorenzo Buccella: felpa grigia con cappuccio e giacca nera rispecchiano perfettamente quello spirito eclettico che emerge dai suoi film di grande critica socio-politica in una forma «galante». Come la sua giacca nera, appunto.

Il più recente Cleveland vs Wall Street (passato al festival di Cannes l’anno scorso), forse lo vedremo presto nelle sale italiane, avendo – a dire dello stesso Bron – Nanni Moretti acquistato i diritti per l’Italia: si racconta l’azione legale di un pool di avvocati della cittadina americana contro ventuno banche ritenute responsabili dei dissesti immobiliari che avevano causato lo sfratto di migliaia di famiglie.
«Facendo le ricerche – spiega Bron – avevo scoperto che erano coinvolte anche banche svizzere, tedesche, giapponesi, ma il punto interessante era il fatto che questa città industriale si era messa contro il mondo finanziario. Una bella metafora per raccontare il capitalismo oggi e per indagare il doppio aspetto della crisi: orribile da un lato perché mette a repentaglio la vita di tantissime persone, promettente dall’altro nel suo essere punto di svolta in una malattia, dove o si muore o si guarisce. Per me nasce qui la speranza», dice con un sorriso negli occhi scuri. «I momenti di crisi portano spesso a dei cambiamenti, che siano nel bene o nel male».
Hai fatto un film sull’elaborazione della legge sugli ogm in Svizzera, «Mais im Bundeshuus. Le génie helvetique» nel 2003, girando per un anno tra i corridoi del Palazzo federale di Berna. Come scegli i temi?
Per necessità! Quando «sento» un argomento, parto con il mio lavoro. A volte a guidarmi è un sentimento intimo e solo in seguito scopro che quel tema riscuote un interesse universale.
Come per «Cunnu de nos services» (Conosciuto dai nostri servizi, 1997), dove racconti la storia di Claude Muret, attivista nel movimento studentesco negli anni sessanta, oggi cinquantenne, che scopre di essere in uno dei tanti dossier creati allora dalla polizia svizzera?
Claude è un mio caro amico e casualmente ci eravamo incontrati la sera stessa in cui aveva visto per la prima volta quel dossier. Era molto frastornato perché vi aveva letto, parola per parola, una conversazione telefonica con sua madre all’epoca in cui era a Parigi nel maggio 1968! Fu un vero paradosso ritrovare quelle parole tanto intime e venire a sapere che lui era un perseguitato dalla polizia. Ci vidi immediatamente un forte aspetto romanzesco e al contempo un’ottima storia per narrare la storia della Svizzera di quegli anni, per altro poco nota.
Mi ha permesso di esporre in maniera specifica le utopie vissute negli anni sessanta e settanta, avendo trovato nei documenti ufficiali il loro inizio, glorioso, il «durante» agitato e la fine, tragica, perché la felice esperienza di aver vissuto in una comune in campagna era purtroppo terminata con la morte di uno di loro.
Fu lo choc, il lutto, il ripensamento: lo si vede e si percepisce nella tua (ri)costruzione filmica intrigante, dove poni sempre a confronto il passato e il presente sia con immagini d’archivio sia con i racconti di tutti i protagonisti, fatti oggi, usando però un linguaggio visivo diverso: inquadrature strette per documenti scritti e volti dei poliziotti, inquadrature più larghe per i militanti.
Volevo focalizzare l’aspetto ridicolo del lavoro fatto dai poliziotti allora, usando la funzione del coro in una tragedia greca, con cui si immette una saggezza popolare un po’ ridicola nel testo. Certo, questo è stato possibile farlo perché da noi non ci furono né morti né grandi arresti, e ne emergono maggiormente le caratteristiche kafkiane. Nei documenti si ritrovano «tratti» molto comuni a tutti i movimenti di quel periodo, e dai racconti degli ex-militanti intervistati sorge il loro bisogno di ripensare il tutto.
Il progetto del film, infatti, era nato attorno all’idea: come si può filmare il pensiero politico? Volevo assolutamente evitare di filmare in modo malinconico il ricordo di quegli anni, e piuttosto andare verso la riflessione attorno a qualcosa che si sta muovendo e che risento attualmente. A mio avviso inizia a esserci una risposta nel mondo, sta a noi ora inventare le modalità per concretizzarla. Ho sempre saputo che sarebbe accaduto, ma non credevo che emergesse tanto velocemente e ciò mi dà una forte motivazione per il mio lavoro. Aggiungo per quanto riguarda la forma che, dato l’aspetto altamente drammatico della storia, avrei potuto farne un film di finzione, ma per me era chiaro che doveva essere un documentario. Al centro della narrazione, c’era un documento riemerso dal passato: la conversazione telefonica tra madre e figlio.
Il tuo secondo film, «La bonne conduite – Cinq histoires d’auto-école» girato nel 1999, già nel titolo la dice lunga sull’intenzione base giocando sul doppio senso dell’espressione «bonne conduite» in francese: cinque persone che stanno imparando a guidare (ma anche a comportarsi bene), nel corso delle lezioni si affrontano i temi più diversi di convivenza sociale essendo tutti i personaggi di diverse origini, dal Marocco, Brasile, Afghanistan, Portogallo, la stessa Svizzera, e – particolare da non dimenticare – l’intero film è un campo-controcampo di primi piani…
I film si raccontano al montaggio, ossia quello è il linguaggio-base. Qui ho scelto cinque coppie, istruttori e allievi, per raccontare il mondo multiculturale in Svizzera. Il montaggio li avvicina e li separa, non volevo per nessuna ragione mostrarli uniti perché anche nella realtà sono persone-istanze singole. Inoltre volevo evitare qualsiasi genere di «scena-verità» da cinema-verità. Ho ricomposto il tutto come l’avevo percepito io, e va detto che il film vive molto attraverso il casting che, tra l’altro, era stato molto lungo. Cercavo «persone» che si rispecchiassero sia nei loro volti sia nei modi di essere, e che esternassero facilmente le difficoltà vissute nei confronti dell’altro e/o dell’altra. Anche qui la scuola-guida è una metafora. Di fatto, si tratta di un classico al cinema, il road-movie, in cui si percorre un po’ di strada insieme: qui imparano a guidare e a comprendersi. Un modo molto zen per parlare della fraternité.

BIOGRAFIA Fra fughe e buona condotta, una vita di documentari

Jean-Stéphane Bron dice di essere nato due volte, la prima volta il 6 agosto 1969 e la seconda quando entrò alla Cinémathèque Suisse di Losanna (vi abitava accanto) all’età di 16 anni, ancora liceale. Dopo questo colpo di fulmine si è iscritto all’Accademia delle belle arti e ha girato il primo corto: «12, Chemin des Bruyères». Soggetto, i vicini di casa. Un classico da scuola di cinema, puntualizza Bron, per chi vuole fare documentari, chi ha l’interesse per la finzione mediamente racconta la prima storia d’amore andata male. Dopo un altro corto, gira «Connu des nos services» nel 1997, a cui due anni dopo segue «La bonne conduite-Cinq histoires d’auto-école». Nel 2001 realizza per Arte «En cavale» con cinque persone davvero in fuga, tra cui Cesare Battisti. Gli altri sono Daniel Bloch (svizzero, entra e esce dalla prigione), Jean-Claude Pirotte (avvocato belga), André Pauly (scassinatore francese) e Yazid Kherfi (gangster algerino), e tranne Bloch, erano stati tutti contattati dal co-autore del film, Joseph Moreno, il quale pensava che essere in fuga fosse un’ottima condizione di vita. Per Bron, invece, è peggio della prigione. Ne esce un ritratto collettivo con storie diverse. Il successo e il premio del miglior documentario svizzero 2004 arriva con «Mais im Bundeshuus: le génie helvetique», ossia «Il granturco al Palazzo federale: il genio elvetico». Un film sulla democrazia, nonostante il soggetto sia la legge sugli ogm. Era quello il momento in cui l’Onu stava decidendo se bombardare o meno l’Iraq e Bron sentì la necessità di conoscere meglio il meccanismo con cui si prendono decisioni politiche.

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