Il Washington Post racconta come l’amministrazione Obama non è riuscita a realizzare una delle sue promesse
Il Washington Post racconta come l’amministrazione Obama non è riuscita a realizzare una delle sue promesse
Fin dal giorno dell’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, una delle sue promesse più attese è stata quella della chiusura definitiva dei campi di detenzione all’interno della base di Guantanamo. Dall’ottobre 2001, quando è iniziato l’intervento armato occidentale in Afghanistan, quasi ottocento persone sono state portate sull’isola di Cuba. Non si tratta di “prigionieri di guerra”, come se fossero soldati di un esercito regolare, e certamente neanche di detenuti comuni: il loro status legale, come vedremo, non rientra in nessuna delle due categorie. Le condizioni della loro reclusione e le critiche delle organizzazioni umanitarie hanno occupato per molto tempo le pagine dei giornali di tutto il mondo: Guantanamo è diventata, per molti, il simbolo di una gestione ingiusta e poco rispettosa dei diritti dell’uomo, da parte degli Stati Uniti, di molti combattenti che venivano fatti prigionieri nella “guerra al terrore”.
Ma la chiusura dei campi di Guantanamo, oggi, è molto lontana. Che cosa ha impedito che l’amministrazione Obama realizzasse la sua promessa? Quali sono stati gli ostacoli esterni e quali le mancanze del governo americano? Il Washington Post ha da poco riscostruito tutta la storia, dall’indomani dell’elezione agli sviluppi delle ultime settimane, prima che la localizzazione di Osama grazie alle confessioni dei prigionieri introducesse un nuovo elemento nella discussione.
Un anno per chiudere Guantanamo
Il 22 gennaio 2009, due giorni dopo il giuramento come presidente degli Stati Uniti, Barack Obama firmò un “ordine esecutivo” che imponeva la chiusura entro un anno della struttura. Una commissione avrebbe riconsiderato la situazione di ciascuna delle 241 persone allora detenute e avrebbe deciso quali avrebbero affrontato un processo e quali invece sarebbero state trasferite.
Lo status legale dei prigionieri, infatti, era poco chiaro. L’amministrazione Bush aveva stabilito che non fossero prigionieri di guerra come definiti dalla Terza Convenzione di Ginevra. A partire dal 2004, una serie di pronunciamenti di tribunali federali e della Corte Suprema avevano cercato di chiarire meglio la loro situazione, mentre il governo aveva iniziato a definirli come “nemici combattenti” e aveva creato un nuovo strumento giudiziario per giudicarli, i Combatant Status Review Tribunals (CSRT). Questi, in decine di udienze quasi sempre a porte chiuse, dovevano appunto verificare che a ciascun detenuto si potesse attribuire la qualifica di “nemico combattente”, senza che si applicassero i normali procedimenti di esame delle prove e delle testimonianze in uso nei tribunali civili.
Quando conclusero le udienze nel 2005, sentenziarono che 38 detenuti non erano combattenti, mentre mantennero quella definizione per più di altri cinquecento. Poco dopo, un giudice federale dichiarò i CSRT incostituzionali. La serie di pronunciamenti legali di diversi tribunali americani andò avanti, ordinando a volte il rilascio di alcuni detenuti che avevano presentato ricorso, ma quando Obama divenne presidente il nodo delle difficoltà di procedura e di definizione non si era ancora sciolto. In questa situazione, l’ordine di Obama sembrava persino andare incontro ai desideri di diversi repubblicani. Durante la campagna elettorale, anche il senatore John McCain, il candidato repubblicano alle presidenziali, aveva parlato di trasferire i detenuti in una base militare del Kansas.
Gli uiguri
Bisognò aspettare qualche mese per il primo passo concreto. Nell’aprile del 2009, una riunione dei responsabili nazionali della sicurezza presieduta dal capo dello staff presidenziale, Rahm Emanuel, approvò il trasferimento di otto uiguri da Guantanamo agli Stati Uniti continentali, per la maggior parte nel nord della Virginia. Gli uiguri sono una popolazione di etnia turca e di religione musulmana che vive soprattutto nella provincia più occidentale della Cina, lo Xinjiang, un’area grande tre volte la Francia molto ricca di petrolio e di gas naturale. Da tempo protestano contro le violazioni dei loro diritti da parte del governo cinese, che da parte sua li accusa di attività separatiste.
In tutte le repubbliche dell’Asia centrale, ma anche in Pakistan e in Afghanistan, si trovano comunità di emigranti uiguri. A Guantanamo se ne trovavano diciassette, ma l’amministrazione Bush aveva concluso che non erano nemici degli Stati Uniti e un giudice federale ne aveva ordinato da tempo il rilascio. Il trasferimento di detenuti negli Stati Uniti era una mossa importante, perché alcuni paesi europei si erano detti disposti ad accettare qualche prigioniero di Guantanamo se gli USA avessero però fatto la prima mossa. Quando tutto era pronto al trasferimento via aereo, la notizia della decisione arrivò alle orecchie del repubblicano Frank R. Wolf, che da trent’anni viene rieletto al Congresso nello stesso collegio della Virginia settentrionale a cui erano destinati gli uiguri.
Wolf inviò al governo e ai media una lettera molto dura, in cui diceva che non bastava la parola del governo per assicurare che dei combattenti addestrati nei campi militari di al Qaida non fossero più pericolosi, una volta rilasciati. Bastò questa protesta perché Emanuel bloccasse tutto. Obama era in carica da solo quattro mesi, e l’amministrazione aveva molto altro di cui preoccuparsi; non era possibile iniziare subito una battaglia con il Congresso. Il piano per il rilascio degli uiguri venne accantonato.
I due discorsi
Le brutte notizie non erano finite. A fine mese, la commissione legale incaricata di rivedere la situazione di ogni singolo detenuto concluse che solo per venti o trenta persone si sarebbe potuto istruire un processo. Per tutte le altre, i servizi segreti possedevano del materiale, ma niente o quasi che potesse essere usato davanti a una corte. Il 20 maggio del 2009, un mese dopo, il Senato bocciò con 90 voti contro 6 la proposta di stanziare 80 milioni di dollari per chiudere Guantanamo. La votazione fu un colpo molto duro per il governo, e il fatto che anche quasi tutti i senatori democratici avessero votato contro la chiusura dimostrava che la retorica repubblicana stava colpendo nel segno: i repubblicani insistevano e non volevano sul suolo americano «alcuni degli uomini più pericolosi del mondo».
Obama, il giorno dopo il voto al Senato, tenne un discorso ai National Archives in cui presentò l’articolata strategia del governo, nella speranza di riguadagnare consensi: i detenuti avrebbero dovuto affrontare processi federali oppure il giudizio di commissioni militari; alcuni sarebbero stati rilasciati, altri sarebbero stati reimpatriati o affidati ad altri paesi; quelli su cui non si poteva istruire un processo ma erano giudicati troppo pericolosi sarebbero rimasti in carcere. Il discorso non ebbe gli effetti sperati, scontentando quasi tutti quelli che avrebbe voluto convincere. L’ala più liberal dei democratici si scagliò contro il mantenimento delle commissioni militari dell’era Bush, mentre le associazioni per i diritti umani non accettavano l’idea che sarebbero continuate le detenzioni a tempo indeterminato e senza processo.
Il colpo di grazia venne dall’ex vicepresidente Dick Cheney, che parlò all’American Enterprise Institute quasi in contemporanea: Cheney attaccò la politica del governo in materia di sicurezza e ripetè che il trasferimento dei detenuti negli Stati Uniti sarebbe stato un errore di cui ci si sarebbe pentiti «negli anni a venire». Un mese dopo il Congresso vietò esplicitamente i trasferimenti, tranne nel caso in cui i detenuti dovessero affrontare un processo. La strategia del governo Obama era in crisi. Nei mesi successivi riuscì ad approvare il Military Commissions Act per la riforma delle commissioni militari, e per qualche tempo si parlò del carcere di massima sicurezza di Thompson, nell’Illinois, come possibile destinazione dei detenuti; ma un piano complessivo per la chiusura di Guantanamo non è stato più reso pubblico.
Il processo a Khalid Sheik Mohammed
All’inizio della presidenza Obama, i sondaggi davano il 39% degli americani contrari alla chiusura di Guantanamo; a giugno del 2009 la percentuale era salita al 50%. C’era ancora una battaglia in cui l’amministrazione poteva combattere: quella per tenere in vita i processi federali. Nell’autunno del 2009 ci fu una parziale vittoria del governo, quando il Senato rifiutò, anche se con un margine ristretto (55 voti a 45), la proposta repubblicana di bloccare il processo a Khalid Sheik Mohammed e altri quattro detenuti. KSM aveva avuto un ruolo di primo piano in al Qaida e, per sua stessa ammissione, aveva collaborato a diversi attacchi terroristici contro gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, compreso quello dell’11 settembre.
Dopo il voto al Senato, il procuratore generale degli Stati Uniti Eric H. Holder jr. annunciò il 13 novembre che Mohammed e gli altri sarebbero stati processati a New York, in un tribunale federale a meno di due chilometri da Ground Zero. La notizia ricevette una grande attenzione in tutto il mondo. Il sindaco di New York Michael Bloomberg sostenne da subito la decisione, ma il dipartimento di polizia della città presentò un piano per mettere in sicurezza l’area che sarebbe costato la cifra astronomica di 200 milioni di dollari l’anno. All’interno del Dipartimento di Giustizia federale si insinuò il sospetto che le cifre fossero volutamente esagerate, mentre da più parti si avanzarono preoccupazioni per l’impatto negativo che il processo avrebbe avuto sulla vita della città. Bloomberg, da allora, ha detto più volte di essersi ritrovato da solo a difendersi dalle critiche, senza un supporto deciso da parte del governo; questi, da parte sua, stava cercando canali di negoziato con l’opposizione repubblicana, ma nel corso dei mesi non portarono a nulla. Solo un mese fa Holder ha comunicato a Obama che il caso di Mohammed ritorna al Dipartimento della Difesa, mettendo definitivamente fine alla vicenda e allontanando la possibilità di altri processi federali.
Le commissioni
Il Dipartimento della Difesa, da parte sua, spingeva per tenere i procedimenti nelle mani dei giudici militari. Ad agosto dello scorso anno, fece presente al governo che alcuni procuratori militari avevano dedicato anni ai casi dei detenuti di Guantanamo, e che la sospensione indefinita delle commissioni avrebbe portato allo spreco di tutto quel lavoro. Hillary Clinton, segretario di Stato, disse che se non partivano i procesi federali anche quelli militari, tenuti a Guantanamo, sarebbero dovuti rimanere fermi; in caso contrario, si sarebbe data l’impressione di non lavorare per la chiusura.
Si riuscì a portare a termine almeno un processo condotto sul suolo americano, e proprio a New York: quello ad Ahmed Ghailani, che era a Guantanamo dal 2004 e era accusato di avere un ruolo importante nelle bombe del 1998 alle ambasciate americane dell’Africa orientale. Il 17 novembre 2010 una giuria lo condannò per aver cospirato a danneggiare o distruggere proprietà degli Stati Uniti, ma venne assolto per altri 284 capi di imputazione. I critici dei processi federali dissero che un terrorista di al Qaida era arrivato a un passo dall’essere rilasciato; per la strategia del governo fu un colpo mortale, e a dicembre il Congresso, appena passato ad una maggioranza repubblicana, impose che i detenuti non potessero essere portati negli Stati Uniti neppure per i processi. Molti all’interno dell’amministrazione pensavano che il Congresso avesse invaso il campo delle competenze dell’esecutivo e spinsero perché Obama affrontasse frontalmente l’assemblea e facesse ricorso contro la decisione. Il presidente la criticò, ma non si spinse fino a dire che poteva ignorarla.
Il nuovo ordine esecutivo
A marzo di quest’anno, poco più di due anni dopo l’ordine esecutivo che annunciava la chiusura di Guantanamo entro un anno, il presidente ne ha firmato un altro. Ma questa volta si tratta di assicurare un nuovo strumento legale per permettere la detenzione a tempo indeterminato dei prigionieri, una situazione che interessa almeno 48 degli attuali 172 detenuti. Le organizzazioni umanitarie hanno chiamato il nuovo provvedimento “un completo voltafaccia” rispetto alle promesse della campagna elettorale. Nella dichiarazione che ha seguito la firma, Obama non ha nominato esplicitamente la chiusura della struttura, ma ha detto che i tribunali federali continueranno a essere coinvolti. Ma il procuratore generale Holder ha detto che, date le misure restrittive approvate dal Congresso, nuovi processi federali sono quasi impossibili. Mohammed sarà processato a Guantanamo in una struttura costruita appositamente, a pochi chilometri dai campi di detenzione.
In conclusione, dice il Washington Post, l’amministrazione Obama ha molte responsabilità sulla mancata chiusura. Per quasi tutto il 2009 e l’inizio del 2010 ha concentrato i suoi sforzi su altri temi, come la riforma delle assicurazioni sanitarie. Su Guantanamo ha spesso subìto l’iniziativa dell’opposizione, e non ha mostrato la necessaria decisione per superare tutte le difficoltà politiche e legali che sbarravano la strada alla realizzazione dell’importante promessa.
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