La lezione di Wojtyla gli occhiali di Gramsci

Domenica Benedetto XVI ha usato parole che sembravano riecheggiare i Quaderni del carcere: eppure stava parlando del beato predecessore

Domenica Benedetto XVI ha usato parole che sembravano riecheggiare i Quaderni del carcere: eppure stava parlando del beato predecessore


Chissà se a coloro che, da sei anni, stanno perdendo tempo ad arruolare anzi peggio, regalare l’attuale Papa alla conservatoria internazionale dello status quo socio-economico, sarà piaciuta l’omelia tenuta da Benedetto XVI domenica in Piazza San Pietro. Dopo aver dichiarato «beato» il suo predecessore, egli ci ha spiegato: «Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo “timoniere” il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio… Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo».
Lette con gli occhi del credente, le parole del Papa riecheggiano quelle con le quali Jacques Maritain definiva il comunismo «l’ultima eresia cristiana». Ascoltate con le parole di chi non crede, sembrano riecheggiare quelle con le quali Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, spiegava come affrontare la sfida della creazione di un nuovo senso comune (coscienza di classe), costruito combattendo quello vigente, rappresentato da un rozzo individualismo, da soddisfazioni immediate, tutte tese (appena possibile) al consumismo esasperato. Wojtyla (e qui, sembra anche Gramsci) elaboravano e prefiguravano quel «nuovo modo di essere» aiutando i poveri del mondo a passare dall’istinto alla coscienza, dalla soggezione dei bisogni alla ricchezza degli obiettivi. Il primo maggio Eugenio Scalfari ha scritto che il pontificato di Giovanni Paolo II «segnò una discontinuità rilevante nella storia moderna della Chiesa cattolica. Una discontinuità variamente interpretata e discussa con aspetti contraddittori, legati tuttavia da una altrettanto rilevante continuità: la denuncia dell’ingiustizia e delle ineguaglianze. Quella denuncia è stata una costante del suo pontificato e spiega la popolarità che il suo messaggio ha avuto in tutto il pianeta, soprattutto tra gli umili e i poveri dell’America Latina, dell’Africa, dell’Oceania, dell’Est europeo… il problema dell’ingiustizia fu il suo costante rovello e su di esso costruì un rapporto indissolubile con tutti i derelitti del mondo». A questi, su un orizzonte dove « il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia», per Benedetto XVI il Papa di Solidarnosc ha restituito «la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con spirito di “avvento”, in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace». Non sono parole neutrali, già che, da Paolo VI ai nostri giorni, la «grande eredità del Concilio», trova in Giovanni Paolo II il simbolo celebrativo di una stagione della vita della Chiesa indimenticabile, quella che senza ambiguità ha posto il problema di una società in cui non ci sia sfruttamento, in cui l’uomo non sia mezzo, in cui non ci sia un potere disgiunto dalle relazioni tra gli uomini che lo hanno istituito. Papa Karol, dal primo maggio scorso, nel mistero che la Chiesa celebrerà ogni anno, continuerà ad essere il simbolo di quell’ indignazione per la sofferenza umana che Eugenio Scalfari ha giustamente riassunto: «L’ingiustizia è il solo e vero peccato del mondo e tutti ne siamo in qualche modo coinvolti sia come vittime, sia come peccatori. La lotta contro quel peccato evoca due principi valoriali: la libertà e l’eguaglianza, in assenza dei quali l’ingiustizia regna sovrana. Karol    Wojtyla va ricordato per questo suo insegnamento che al di là d’ogni steccato rappresenta la sostanza nobile dell’umanità. Anche la politica dovrebbe aver presenti quei valori. Spesso li dimentica o addirittura li calpesta perdendo autorevolezza e credibilità».
Quando ad aprile del 2005 sette milioni di anime vennero a stringersi intorno alle spoglie del loro pastore, quella autoconvocazione venne liquidata come estremo esito della mediatizzazione dell’immagine del Papa polacco, oggi c’è già chi vede nel milione e passa del primo maggio, un popolo venuto a Roma per l’usuale dose di oppio. Eppure per il giornale on line Il mondo di Annibale, tre giorni fa il popolo di Karol è stato «capace di sopportare tutto» da parte di «un comune di Roma che ha dato il peggiodisé,e non è stato il solo a fare brutta figura: grazie agli organizzatori vaticani, Piazza san Pietro è riuscita a sembrare brutta. Insomma, è stato il popolo di Karol il vero grande protagonista: apprezzabile, invidiabile si può dire, di questa beatificazione. Neppure le musichette del “maestro” Frisina lo hanno saputo piegare». Per l’oppio e altri tranquillanti, meglio cercare altrove.

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