Il coraggio di raccontare una guerra senza gloria

Le memorie di Terzi che nel 1943 entrò nell’esercito italiano fino al 1945.  È l’autobiografia di un ragazzo che resta nella “zona grigia” né con i partigiani né a Salò consapevole della sconfitta eppure chiamato ad arruolarsi 

Le memorie di Terzi che nel 1943 entrò nell’esercito italiano fino al 1945.  È l’autobiografia di un ragazzo che resta nella “zona grigia” né con i partigiani né a Salò consapevole della sconfitta eppure chiamato ad arruolarsi 

Ha diciotto anni nel 1943, quando la guerra fascista prende a declinare verso la sconfitta. Ne avrà venti allorché la catastrofe risulterà definitiva. Sono i dati biografici che scandiscono le memorie di Ludovico Terzi, Due anni senza gloria, 1943-1945, un libro intenso e struggente (in uscita da Einaudi Stile Libero, con uno scritto di Goffredo Fofi). L´indice ideale che il lettore si fa di quest´opera vede in primo piano, è ovvio, l´autore-protagonista. Ma scorge accanto a lui una «tribù» – parola che spicca più volte nel testo, cioè una numerosa comunità familiare, un clan, si direbbe oggi – segnata da un forte patriottismo. Il sovrappiù di enfasi che in genere danneggia questo concetto, il «patriottismo», appare stemperato dal narratore con dolente naturalezza.
E´ come se “i Terzi”, membri della tribù cui si accennava, e l´autore con loro, avessero visto nel precipizio del fascismo una scommessa fallita ai danni della compagine nazionale cui erano orgogliosi di appartenere. Risulta lampante l´inattualità di una simile posizione, e quasi insolubile la difficoltà che può avvertire un italiano dei nostri tempi nel tentativo di condividerla. E tuttavia Ludovico Terzi, in questa sua “story” dal vero scritta benissimo, trova il modo di offrire al pubblico il sapore della verità. E´ arduo cogliere in questa rievocazione il disegno di giustificarsi. Ciò che viene offerto è la testimonianza di un arduo passato, da rievocare senza sussiego. Ecco la forza del libro.
Ingegnere e segretario nazionale della “corporazione” degli ingegneri, il padre di Ludovico, Ottone Terzi, aveva ottenuto una medaglia d´argento nella Grande Guerra. Sarebbe diventato, più tardi, consigliere nazionale del Pnf, cioè membro del Parlamento (chiamiamolo così) fascista. Uno zio, Osvaldo Sebastiani, alto funzionario del ministero degli Interni, dopo essere stato segretario particolare di Mussolini, nei primi anni Quaranta era assurto a presidente della Corte dei Conti. Un altro zio, Adolfo, fu ufficiale medico nei ranghi della Repubblica di Salò. Essi s´erano lasciati coinvolgere in responsabilità pubbliche per una solida, e certo malintesa, fedeltà allo Stato, che sfociò, all´epilogo del regime, in una «propensione romantica per le cause perse». Legati di fatto al sistema littorio, poco ne condividevano l´ideologia. Li condizionava «un fondo di cultura liberale» che a volte – è il caso dell´amicizia con ebrei che Ottone Terzi intrattenne anche dopo le leggi razziali – li metteva in contrasto con gli imperativi ministeriali.
Il secondo conflitto mondiale costrinse a una netta scelta di campo anche la generazione successiva. Dové affrontarla Ludovico Terzi quando venne chiamata alle armi la sua classe, il 1925. Ecco il dilemma che gli presentava: imboscarsi in una delle istituzioni di comodo che si offrivano ai «figli di papà» per evitare gli obblighi militari, oppure ottemperarvi. L´”obbligo d´onore” connesso al patriottismo familiare impose la seconda alternativa: arruolarsi. Destinazione: una scuola per allievi ufficiali, come tappa di avvicinamento all´Accademia militare di Modena. Agli albori della Repubblica Sociale, non poteva dirsi un´opzione pacifista, consentiva tuttavia di trattenersi in una sorta di limbo. Ma quando, con la guerra civile ormai in atto, fra le incombenze richieste agli allievi dell´Accademia emerse la caccia ai partigiani, diventò duro obbedire alla disciplina. Il supposto limbo s´incupiva. Fu allora che il futuro autore di Due anni senza gloria decise di disertare, fuggendo dal campo che lo ospitava. Ci provò, in compagnia di un commilitone a nome Alvaro, ma il tentativo fallì. Stava per ripeterlo, ma a bloccarlo fu l´arrivo di una lettera di sua madre, gremita del proverbiale tema dell´«onore», qualità ereditaria del clan Terzi.
Diventare un disertore lui, con quei precedenti “tribali”, gli parve uno stratagemma non degno. Suo padre era morto. Lo zio Sebastiani, vedendo crollare insieme alle sorti del regime di Salò anche le proprie, andava da tempo formulando un pronostico atroce: «Un giorno o l´altro», sosteneva, «mi uccideranno» (soggetto sottinteso: i partigiani). Un gruppo di giovani antifascisti in armi lo avrebbe infatti giustiziato, nei pressi del lago di Como.
Ludovico, un effettivo della “tribù Terzi”, non se la sentì dunque di passare dall´altra parte. Quella del limbo, benché sempre più incline all´inferno, gli parve l´unica via da adottare, ai limiti dell´assurdo. Per misurarne la profondità, va citato un breve episodio che si racconta nel libro. Riguarda un´esplicita ribellione, quasi un ammutinamento, di cui fu protagonista il narratore, di fronte all´ordine di partecipare a un´azione di rastrellamento di “resistenti”. Scoperto e deferito a un ufficiale, per evitare la prigione, o forse peggio, egli dové corrompere, con del danaro, un ufficiale repubblichino.
Sono passati più di sessant´anni. Sull´attività cui Terzi si dedicherà in tempo di pace, nei ranghi direttivi della casa editrice Einaudi e in quelli della sinistra intellettuale, resterà sospesa – qualche pagina del libro lo racconta in dettaglio – la scelta rischiosa che egli fece a suo tempo. Al lettore di Due anni senza gloria non tocca altro che apprendere e riflettere. Con emozione.

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