Antonio Giolitti, l’utopia concreta

Lasciò il Pci dopo l’Ungheria ma non riuscì a conquistare il Psi

Lasciò il Pci dopo l’Ungheria ma non riuscì a conquistare il Psi

La Treccani, assieme alla Fondazione Basso, lo ricorda oggi, a un anno dalla morte, con un convegno articolato come un racconto biografico che comincia negli anni Trenta, attraversa la Resistenza, la Costituente, il comunismo e il socialismo italiano, il centrosinistra, l’Europa: un pezzo, e che pezzo, di Novecento. Al termine di una giornata di discussione, saranno Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari a discutere su che cosa abbia lasciato in eredità Antonio Giolitti alla nostra democrazia e alla nostra sinistra. Anche a non voler indulgere al pessimismo, la risposta rischia di essere sconsolata. A giudizio di Luciano Cafagna, che lo ha conosciuto come pochi, Giolitti è stato prima di tutto «un intellettuale illuminato» , nutrito di una concezione essenzialmente illuministica del riformismo. Vero. Questo spiega perché Giolitti non ebbe mai un forte seguito organizzato nel Psi, ma, a guardar bene, aiuta pure a capire perché «l’intellettuale illuminato» , dopo l’uscita dal Pci all’indomani della rivoluzione ungherese del ’ 56, sia stato a lungo, con Riccardo Lombardi, il socialista più capace di mettere in movimento e di aggregare forze intellettuali (un’area, si diceva allora) attorno a un progetto e, prima ancora, a un’idea di riformismo possibile. Si discute, spesso a vanvera, dell’ «egemonia culturale» a lungo esercitata del Pci. Se effettivamente vi fu, cominciò a incrinarsi visibilmente dopo il ’ 56, quando una già vacillante ortodossia si trovò a fare i conti, nei più diversi campi, con un sempre più dichiarato revisionismo. E di questa appassionata offensiva revisionistica, che ha nel Psi un punto di riferimento tanto essenziale quanto sgangherato, e di quello che negli anni ne derivò, Giolitti non fu solo un protagonista, ma un organizzatore. All’opposizione, a cominciare da «Passato e presente» , la rivista che fonda, nel ’ 58, con Alberto Caracciolo, Claudio Pavone e Carlo Ripa di Meana. Poi, con l’avvento del centrosinistra, al governo, quando tra Roma e Torino attorno a Giolitti ministro del Bilancio e a Giorgio Ruffolo capo della Programmazione si allarga una pattuglia di collaboratori e di interlocutori di tutto rispetto: da Cafagna a Manin Carabba, da Manlio Rossi Doria a Pasquale Saraceno, da Giuliano Amato a Federico Coen, da Giuseppe Carbone a Scalfari. E infine anche nel partito: a firmare le tesi della sua corrente, a metà degli anni Sessanta, saranno, con Coen, Rossi Doria e Scalfari, Norberto Bobbio e Roberto Guiducci. Non tutti questi intellettuali (e molti altri ancora, che qui non è possibile citare) sono ovviamente etichettabili come «giolittiani» in senso stretto. Ma la comunità cui danno vita, e che resisterà all’usura del tempo, nonché alle durezze (e alle miserie) della lotta politica, ha una sua cifra tutta particolare, di cui anticonformismo intellettuale, apertura (senza subalternità) all’economia di mercato, passione riformatrice per l’utopia, che si fa concreta solo se è capace, attraverso progetti e programmi, di modificare per quanto possibile la realtà, sono una componente essenziale. Tutto questo non bastò, e non poteva bastare, a conquistare la leadership del Psi, tanto è vero che nel ’ 76 fu Bettino Craxi a prevalere senza che Giolitti desse battaglia, che non pochi dei «giolittiani» , a cominciare da Amato, un ruolo di primo piano nel partito e nel governo lo ottennero in età craxiana, e che lo stesso Giolitti, nel 1987, lasciò, dopo trent’anni, la casa socialista, accettando il seggio da indipendente al Senato offertogli dal Pci. Ma basta a dire, come ha sottolineò Napolitano all’indomani della morte, che Giolitti ha lasciato un segno di apertura importante, profondamente innovativo nel rapporto tra politica e cultura. Autorevole collaboratore della Einaudi, era stato lui, Giolitti, a tradurre dal tedesco le due celebri conferenze di Max Weber su La politica come professione e La scienza come professione. E negli anni Ottanta, in un libro sulla questione socialista curato, sempre per Einaudi, assieme a Vittorio Foa, proprio alla lezione di Weber («la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso» ) Giolitti si rifaceva per dare conto della sua utopia riformista: utopia, scriveva, «nel senso di una permanente e certo mai compiutamente soddisfatta tensione ideale verso i valori trascendentali della libertà, della giustizia, della solidarietà» . Raramente dei concetti sono parsi tanto inattuali. Ma, senza questa sua particolarissima utopia, riformismo è parola priva di senso e di spessore. Forse, la principale eredità di Giolitti sta nel fatto che ci aiuta a non dimenticarlo.

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