In quel che è stato chiamato il Grande Gioco, non càè dubbio che - finché era vivo - Osama bin Laden rappresentava una carta pesante in mano agli Stati uniti. Per anni agitare il suo fantasma (o persino il simulacro del fantasma) bastava a giustificare nuove invasioni, guerre preventive. ">

Il nuovo Grande gioco

In quel che è stato chiamato il Grande Gioco, non càè dubbio che – finché era vivo – Osama bin Laden rappresentava una carta pesante in mano agli Stati uniti. Per anni agitare il suo fantasma (o persino il simulacro del fantasma) bastava a giustificare nuove invasioni, guerre preventive.

In quel che è stato chiamato il Grande Gioco, non càè dubbio che – finché era vivo – Osama bin Laden rappresentava una carta pesante in mano agli Stati uniti. Per anni agitare il suo fantasma (o persino il simulacro del fantasma) bastava a giustificare nuove invasioni, guerre preventive.

La sua immagine barbuta era divenuta uno dei più potenti strumenti della politica estera Usa. Uccidendolo, il presidente Barack Obama si è giocato questa carta, ha buttato il suo asso sul tavolo. La domanda è non solo cosa ci ha guadagnato, ma anche come sono rimasti gli altri giocatori: in definitiva, come – e quanto – questa mossa ha cambiato il gioco stesso. Un primo effetto è che questa uccisione ha alterato la posta: prima il gioco imposto da George W. Bush era la «guerra al terrore», ora la posta è la ridefinizione stessa del gioco. Da un lato i repubblicani e la destra americana insistono che il quadro non è cambiato, che sempre all’interno della «guerra al terrore» ci troviamo e, a supporto di questa tesi, sottolineano i rischi di nuovi attentati, le possibili «rappresaglie » di al Qaeda. Mentre liberal e progressisti sostengono che con la scomparsa del simbolo del terrorismo integralista islamico, è venuta meno la ragione stessa di questa guerra al terrore (vedi l’articolo della direttrice di The Nation, Katherina van den Heuvel, sul manifesto di ieri). Con l’uccisione di bin Laden, Obama non solo ha distribuito nuove carte, ma ha cambiato i tavoli su cui la politica Usa e quella mondiale si giocano. Lo si vede dall’imbarazzato silenzio con cui gli esponenti repubblicani (in particolare quelli del Tea party) hanno reagito alla notizia. Per lo meno finché la disoccupazione non riacquisterà la sua preminenza nell’immaginario dell’elettorato statunitense, Obama ha spiazzato e messo a tacere la macchina «patriottica» dei repubblicani che centrava tutti i suoi attacchi sul presunto non americanismo del presidente (un-american Obama). Obama ha spiazzato anche i propri generali che per anni hanno sfottuto le «femminucce» subentrate alla Casa bianca: per loro da ieri è molto più difficile chiedere rinforzi in Afghanistan, anzi è più difficile negare al presidente un ritiro per lo meno parziale. È interessante notare che il licenziamento del ministro della Difesa Robert Gates sia avvenuto quando l’uccisione di Osama era già stata decisa, maprima che fosse resa pubblica: il presidente Obama ha ritenuto di poter fare infine a meno di una copertura repubblicana al Pentagono una volta decisa la morte del fondatore di al Qaeda. Non solo, ma anche la contemporanea promozione di Leon Panetta da capo della Cia a ministro della Difesa acquista insieme il significato di una promozione per l’avvenenda cattura e di nuova legittimità democratica a reggere le redini della Difesa e dell’istituzione militare. Anche lo spostamento del generale David Petraeus prende retroattivamente un altro significato: non solo la neutralizzazione di un possibile rivale nella corsa presidenziale, maanche una derubricazione della battaglia contro il terrorismo islamico, da conflitto militare a guerra di intelligence. Maspiazzati sono stati anche i progressisti. Basti pensare a tutte le organizzazioni dei diritti civili (da Human rights watch) all’Aclu (American civil liberties union) che non osano aprire bocca sul modo con cui è stato ucciso bin Laden benché sia ormai chiaro che la sua esecuzione è avvenuta in spregio a ogni legge internazionale (ora la Casa bianca ammette che Osama non era armato). Il disorientamento dei progressisti è rivelato dal fatto che solo un paio di deputati «di sinistra » si sono levati a chiedere una riduzione delle spese militari: come se il bilancio del Pentagono godesse di quella stessa «rigidità verso il basso» che caratterizza i beni di prima necessità (quando il barile di petrolio rincara, la benzina aumenta in conseguenza, ma quando il greggio crolla, il litro alla pompa scende solo impercettibilmente): l’aumento delle spese militari era dovuto alla minaccia terroristica alla «guerra lunga un secolo» invocata da Dick Cheney,maquando il maggior terrorista muore, tagli alla difesa possono essere «pericolosi». Ma la morte di Osama cambia molto anche sullo scacchiere mondiale. Fino a ieri l’ostilità islamica nei confronti degli Usa era come «velata» dal terrorismo wahabita. Oggi quest’alibi viene meno. Se erano i fondamentalisti a chiedere l’apertura del varco di Gaza, li si bollava come alleati dei «terroristi di Hamas», ma ora a esigerlo è il generale Sami Ennan (capo di stato maggiore e nuovo uomo forte dell’Egitto), ben noto al Pentagono e stimato dai suoi colleghi Usa. Non solo, il gioco cambia anche in Iraq e, alla lunga, in Iran. Ma a subirne le prime conseguenze sarà senza dubbio l’Afghanistan: tolta (letteralmente) di mezzo l’ipoteca bin Laden, gli Usa potranno ormai trattare direttamente con i taleban, ormai «islamici » come tanti altri (i sauditi, per esempio). Hamid Karzai si deve sentir vacillare la terra sotto i piedi. Per non parlare del Pakistan che ha cercato lo scambio: mollare agli Usa l’uomo che proteggeva e nascondeva da anni (checché ne dicano ora) in cambio della promessa di una forte influenza nel futuro Afghanistan a coalizione taleban. Ma è dubbio che gli Usa siano pronti a concedere tanto a un alleato tanto infido, soprattutto perché un «Grande Pakistan» (di cui l’Afghanistan sarebbe una sorta di protettorato) è insopportabile a un’India sempre più essenziale agli occhi americani, in quanto unico possibile baluardo meridionale contro l’espansionismo cinese. Nell’800 il «Grande Gioco» era proprio quello che aveva come posta l’immensa area tra la Turchia e l’India. Allora a giocare il Gioco erano Gran Bretagna e Russia zarista. Oggi, venuta meno l’anomalia jihadista di bin Laden, il Grande Gioco si ripresenta nella sua forma più genuina, come scontro tra Cina e Stati uniti, scontro di cui il Pakistan è da più di trent’anni la casella essenziale il cui controllo condiziona tutto il resto.

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