Ogni giorno centinaia di immigrati attraversano la frontiera tra Turchia e Grecia. E per fermarli Atene vuole costruire un muro

 

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Ai confini dell’Evros

Ogni giorno centinaia di immigrati attraversano la frontiera tra Turchia e Grecia. E per fermarli Atene vuole costruire un muro

 

Ogni giorno centinaia di immigrati attraversano la frontiera tra Turchia e Grecia. E per fermarli Atene vuole costruire un muro

 

«Vedete, quella è la Turchia» dice Stefanos, il giovane agente greco che ci accompagna indicando in lontananza i minareti della moschea Selimiye di Edirne. «Questo è l’unico tratto di frontiera che non coincide con il fiume Evros. Se ora fosse recintato, sarebbe meglio per noi e per i turchi, per controllare l’immigrazione ». Ci sono 12.500 metri di terra rossa tra il valico di Kastanies e il punto in cui l’Evros torna greco, dalle parti di Nea Vyssa. Il confine è segnalato da una doppia strada parallela, bonificata dalle mine solo pochi anni fa. Qui, nelle intenzioni del governo ellenico, verrà tirata su una barriera di metallo, dotata di telecamere e sensori di movimento, del tutto simile a quelle che sono già presenti a Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in Marocco. Un nuovo muro per contrastare l’immigrazione. Il fiume umano Siamo nell’estremo nord-est del Paese ellenico, lungo il trilaterale confine, che fino a vent’anni fa sanciva la separazione di tre mondi. Di qua le tegole amaranto delle chiese ortodosse a croce greca di Orestiada. Di là i minareti della popolosa Edirne, la vecchia Adrianopoli. Poco più su Svilengrad, col suo grigiore post-sovietico, che emana ancora dalle fabbriche elettrificate e dai casermoni di cemento armato, tatuati in cirillico. La vecchia cortina di ferro passava lungo il confine bulgaro, per tenere fuori greci e turchi, uniti nella Nato. Quella che si vuole edificare oggi corre lungo la frontiera tra Turchia ed Europa. Già, perché dall’altra parte, la Repubblica di Bulgaria ha già annunciato che ricostruirà una recinzione sormontata da filo spinato, sui suoi 143 chilometri di confine, dall’Evros (che lì si chiama Marica e in Turchia Meriç) fino al Mar Nero. Motivo? Ufficialmente: contrastare l’afta epizootica portata in Bulgaria dagli animali infetti provenienti dalla Turchia. «Pretesti risibili – secondo Sinan Ogan, presidente del centro turco per i rapporti internazionali e le analisi strategiche – Con queste scuse, Bulgaria e Grecia hanno intenzione di alzare un muro tra Europa e Turchia. Quindi tra Cristianesimo e Islam». In mezzo scorre il fiume. Non solo l’Evros, ma quello costituito dagli oltre 36 mila migranti che solo nel 2010 sono riuscito attraversarlo. D’estate oltrepassano il confine fino a 300 persone al giorno, nascoste tra le piantagioni di girasole e mais. Si tratta del 90 per cento degli arrivi totali in Europa. E di questi 36 mila, almeno 27 mila sono passati proprio per il confine terrestre lungo il quale si sta progettando il muro. «Arrivano a tutte le ore della notte e del giorno – spiega il capo della polizia di Orestiada, Giorgos Salamangas, nel suo ufficio adornato dalle icone ortodosse – e oramai non vengono più solo dal Medio Oriente e dall’Asia. Giungono qui dall’Africa, persino dall’altra parte dell’Oceano. L’altro giorno abbiamo fermato un ragazzo proveniente dalla Repubblica Dominicana. Il muro potrebbe essere una soluzione per aiutarci a contenere il problema». La Grecia infatti non riesce ad arginarli, neanche con il supporto dell’unità dall’agenzia europea Frontex. Almeno 175 gli agenti doganali convogliati sull’Evros da tutta Europa, con le proprie unità di intervento rapido. E le pattuglie si sono intensificate sul finire di gennaio, temendo un nuovo forte afflusso, dopo le turbolenze in Tunisia ed Egitto. Dumitru Chariuc fa parte della Politia de Fronteira romena in missione in Grecia. Fascia azzurra del Frontex al braccio, una pistola nella fondina e ogni sorta di ritrovato tecnologico nel bagagliaio del suo fuoristrada. Pattuglia di giorno e di notte il confine terrestre greco-turco fra Kastanies e Nea Vyssa, il più poroso. Ci mostra compiaciuto un binocolo a rilevazione termica. «Ne ho già avvistati diversi – dice – ma posso intervenire solo dopo aver avvisato i colleghi greci, che guidano la missione». Il cimitero dei senza nome E poi c’è il confine naturale dell’Evros. E c’è chi, dentro quel fiume, annega. Salamangas apre una cartella di foto sul suo desktop. In rapida successione scorre le immagini dei cadaveri tirati a riva, deformati dall’acqua inalata, decomposti e resi irriconoscibili dopo essere divenuti cibo per i pesci. «L’anno scorso ne abbiamo contati 22 – dice – ne abbiamo segnalati almeno altri 5 alle autorità turche, perché erano sulla loro sponda. A questi vanno aggiunti quelli rinvenuti dai colleghi di Alexandroupoli. Attraversano il fiume con dei canotti per bambini o con delle piccole barche da pesca stipate all’inverosimile. Molti di loro non sanno neppure nuotare». Lo scorso anno sono stati arrestati 184 trafficanti, tra i distretti di Orestiada e Alexandroupoli. Una decina di questi erano pescatori turchi. «I cadaveri vengono esaminati e fotografati dal medico legale di Komotini – spiega Salamangas – poi vengono seppelliti a seconda della religione presunta. La maggior parte finisce nel cimitero islamico di Sidiro». Qui, nella nuda terra, all’interno di una spianata recintata tra i boschi, trovano riposo coloro che non ce l’hanno fatta. Talvolta, grazie all’esame del Dna, qualcuno riesce a tornare a casa, almeno da morto. È il caso di 8 pachistani, reclamati lo scorso anno dalle proprie famiglie. A Sidiro, villaggio agricolo a metà strada tra i confini bulgaro e turco, vive la comunità islamica locale. Il Mufti, Mehmet Damatouglou, tiene la contabilità dei decessi: «Da quando abbiamo aperto quel campo, ce ne sono stati circa 150 – rivela, sfogliando il brogliaccio – ma solo lo scorso anno ne ho seppelliti almeno una cinquantina». Tra Sidiro e il fiume Evros sorge il centro di detenzione di Fylakio, che versa in una situazione drammatica. Gli stessi poliziotti che piantonano l’ingresso spiegano quanto dentro la situazione sia al collasso. Assistiamo alla perquisizione sul piazzale del centro di un gruppo appena portato dalla polizia. Centinaia di persone aspettano di capire se saranno espulse dalla Grecia, oppure se verranno rilasciate con un permesso temporaneo di residenza valido 30 giorni, la cosiddetta white card. La Bulgaria è poco interessata all’enorme flusso migratorio in arrivo dalla Turchia, ma si sta equipaggiando. A Lyubimets e Pastrogor, proprio sulla linea del triplice confine, sono già in costruzione due enormi centri di detenzione per migranti. Quello di Lyubimets è praticamente ultimato e ha l’aspetto di una imponente caserma. Riusciamo a visitarlo da fuori e a scattare qualche foto prima che due guardie ci invitino a girare i tacchi. Afghani alla stazione Davanti al centro di Fylakio ogni mattina parte un pullman diretto ad Atene che raccoglie imigranti appena liberati e allo sbando. La capitale dista 1000 km e il biglietto costa 60 euro. Gruppi di migranti diretti al nord si incontrano in ogni stazione ferroviaria o ai capolinea dei bus, lungo la linea di confine. I greci dei villaggi si dicono tutti esasperati dal loro passaggio. Un signore ci imita la raffica di un kalashnikov appena gli chiediamo se vede passare gruppi di afgani e pachistani. Ma l’esodo è continuo verso Atene, perché lì, intorno ad Omonoia street, Attiki square, Ameriki square, si sono raccolte massicce comunità di migranti connazionali a cui appoggiarsi. Esattamente come vorrebbe fare un gruppo di afghani e pachistani incontrati alla stazione di Soufli, appena rilasciati dalla polizia. Ci mostrano con apprensione la loro white card fresca di stampa, e lemani intrise dell’inchiostro con cui hanno rilasciato le impronte digitali. Hanno attraversato l’Evros un paio di giorni prima e, appena messo piede a Soufli, qualcuno li ha notati e ha chiamato gli agenti. Quindi sono stati subito portati al commissariato. Il più piccolo di loro, Wasim, ha l’inequivocabile fisionomia di

un bambino. Stando al diritto internazionale, dovrebbe essere ospitato immediatamente in un centro per minori non accompagnati. Invece è stato rimandato in strada con gli altri. Pur di continuare il suo viaggio dritto verso il Belgio, ha dichiarato agli agenti di avere 19 anni, anziché, come ci confida, i suoi veri 15. Wasim ha le guancie imberbi ed è alto un metro e mezzo. Il fatto che la polizia lo abbia rilasciato lascia immaginare la confusione o le logiche di emergenza con cui vengono gestite le pratiche di riconoscimento. Il viaggio dei ragazzi mette le vertigini. Hanno attraversato l’Iran, sono passati per Van nella Turchia orientale, e hanno stazionato qualche giorno a Istanbul prima di attraversare l’Evros. Quando il treno arriva salgono tutti in fila speranzosi, ma vengono subito ricacciati indietro dal controllore. Il biglietto si paga in euro, loro invece hanno solo dollari. Lo sconforto è totale e mentre cadono i primi fiocchi di neve qualcuno telefona ad Atene e in Iran. Chiedono consiglio sul da farsi ai loro contatti fra i trafficanti d’uomini. La temperatura è sotto zero e se non fosse per l’aiuto dei Medici senza frontiere che li ospitano a dormire nel loro pulmino, la notte sarebbe stata un incubo. Il giorno dopo riescono a partire. Ora sono ad Atene. Li aspetta la tappa di Patrasso e Igoumenitsa, da dove si imbarcheranno, di nascosto, verso le coste italiane dell’Adriatico. Per arrivare, infine, in nord Europa, oltre l’ennesimo confine, al di là dell’ennesima barriera.

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