Ritratto di Derek Raymond di cui è uscita l’autobiografia atipica «Stanze nascoste» da Meridiano zero. La sua lingua modellata sui mille dialetti londinesi indaga il mondo degli esclusi nelle loro derive criminali e si confronta con il mistero di ciò che è oltre la vita
Ritratto di Derek Raymond di cui è uscita l’autobiografia atipica «Stanze nascoste» da Meridiano zero. La sua lingua modellata sui mille dialetti londinesi indaga il mondo degli esclusi nelle loro derive criminali e si confronta con il mistero di ciò che è oltre la vita
«Interrotto dalla vecchia, venuta a vedere che cosa stava succedendo nella stanza accanto mentre doveva ancora terminare con la ragazza, l’assassino le saltò addosso senza una parola, la sollevò come se fosse un sacco dell’immondizia e le fece sfondare la pendola accanto alla porta dell’ingresso, con una forza che neanche lui sapeva di avere. Non avrebbe potuto fare di meglio, constatò: eramorta sul colpo. » Con questo terrificante incipit, nell’anno di grazia 1990, Derek Raymond gettava i lettori – perfino quelli avvezzi alle più cupe varianti del noir – nell’incubo di Il mio nome era Dora Suarez, guadagnandosi in via definitiva i galloni di maestro del crime, se non del romanzo contemporaneo tout court. Un incubo che, in un crescendo che sembra non fermarsi davanti ad alcuna profanazione e brutalità, ci immerge progressivamente nella mente di un «assassino senza perché», e insieme in quella dell’uomo chiamato a dargli la caccia: l’anonimo sergente che fa da protagonista all’intero ciclo della Factory, di cui Dora Suarez è il quarto capitolo, e al quale resta legata la fama dell’autore. Ma soprattutto, ci immerge nella mente della vittima (il cui nome, non a caso, dà il titolo al romanzo), nei suoi sogni infranti, nella sua lenta deriva verso la morte, con una partecipazione romantica e totalizzante che non ha eguali nel noir contemporaneo e sembra rimandare direttamente ai maestri piùmaledetti del genere: Jim Thompson, Cornell Woolrich ma soprattutto il David Goodis di Sparate sul pianista o di La ragazza di Cassidy. Una dichiarazione di poetica L’anonimo sergente della Factory lavora, non a caso, alla sezione Delitti irrisolti, nella quale, per usare le sue stesse parole in Aprile è il più crudele dei mesi (forse, dopo Dora Suarez, il romanzo più bello della serie), ci si occupa «solo di quei casi le cui vittime sono state dichiarate in alto loco come trascurabili, prive di interesse per la stampa, senza agganci importanti o collegamenti con la grande criminalità». Vite perdute, dunque, bruciate nelle strade di una Londra mai così sporca e vera, nei pub e nei locali equivoci. Strappate e avvolte in un silenzio cui il sergente vuole sottrarle, interrogandole fino a quando non torneranno a parlare, e con piena dignità, direttamente dalla morte. Come vivono imorti è lo splendido titolo del terzo romanzo del ciclo della Factory: un ossimoro che è una vera e propria, condensata dichiarazione di poetica. Ora, però, della poetica di Raymond, come del suo percorso umano, è possibile sapere molto di più attraverso Stanze nascoste, l’autobiografia atipica che Meridiano Zero, suo editore storico, ha mandato alle stampe nell’ottima traduzione di Federica Alba e Pamela Cologna, e che Raymond scrisse all’indomani di Dora Suarez, quasi per liberarsi dal peso inumano sostenuto nei diciotto mesi che gli erano stati necessari per completare il suo capolavoro. Moventi per una teoria Lo sforzo compositivo, il dolore quasi fisico sofferto dallo scrittore per calarsi alle radici del male e riscattarne le vittime, risuona in molte delle pagine di Stanze nascoste, e offre il destro a una serie di riflessioni teoriche sul noir che lasciano decisamente il segno, costringendo chi legga ad abbandonare le prospettive un po’ asfittiche della teoria dei generi e a guardare alla narrativa definita di volta in volta poliziesca, crime, noir da una prospettiva differente e più libera. Nella poetica di Raymond, il noir è letteratura insieme sociale e metafisica. Sociale perché prende le mosse dalla constatazione delle profonde diseguaglianze che contraddistinguono l’Inghilterra contemporanea e della scollatura perfino linguistica tra le classi dominanti e la vasta umanità che vaga senza meta per le vie e i locali della Londra più nascosta, in un misto inestricabile di disperazione e vitalismo. E da questa constatazione muove per investigare proprio il mondo degli esclusi, in tutte le sue derive criminali, senza traccia dimoralismi ma anche senza condiscendenze. Il noir è però anche metafisica, perché si confronta incessantemente con il mistero della morte, con ciò che è oltre la vita e fuori dal dominio dei sensi: e confrontandosi con lamorte la interroga incessantemente, e non conosce pace finché non ottiene risposta. In Dora Suarez, la scoperta e la punizione del colpevole occupa le ultime pagine del romanzo, ma somiglia più che altro alla coda necessaria di un percorso che ci ha portati altrove, e da un corpo martoriato e smembrato ha ricostruito e nobilitato un’identità. Per usare le parole dello stesso Raymond, in Stanze nascoste: «Il romanzo è come un lamento funebre, che insorge contro la morte imposta prematuramente a un individuo.» E ancora: «Dora Suarez è stato un viaggio di diciotto mesi durante il quale il mondo della luce era solo unmiraggio lontano, macomunque sufficiente per me e Dora per trovare il modo di tornare indietro, di uscire dal labirinto. Nel mio viaggio ho lasciato il mondo per la pagina e la pagina per l’inferno, con la speranza che il ritorno fosse possibile. Sono tornato. Mi sono fatto strada in un luogo oscuro e ho acceso una luce nel buio di un altro, riemergendone con la consapevolezza che l’agonia di Dora tra le anime perdute è finita. La squallida atrocità della sua morte se n’è andata e ora è libera dalle catene, non è più perduta e sola – è sfuggita alla dannazione eterna». È questa dimensione insieme metafisica e romantica a rappresentare il vero, grande contributo di Raymond al noir e alla letteratura, e a consentirgli di prendere le distanze dal puro sociologismo di denuncia nel quale è incappatomolto noir contemporaneo, per immergersi in un abisso che ci guarda e al quale siamo perennemente tentati di sfuggire. In questa chiave, l’immersione nella realtà degradata di Londra, che domina incontrastata nei romanzi della Factory, rappresenta soltanto il primo passo di una lunga deriva, che coinvolge personalmente l’autore e lo induce a fare i conti con il lato più oscuro della sua stessa anima. Se il viaggio all’inferno di Dora Suarez è così devastante, per Raymond come per chi lo legge, è proprio perché tuffarsi «in quella terra di mezzo dove si incontrano i vivi e i morti» significa scoprire una vocazione al male che esiste in ciascuno (nello scrittore prima di tutto), e che nel viaggio stesso va bruciata assaporandone fino in fondo i rischi e le potenziali conseguenze. Nessuno poteva esserne più consapevole di Derek Raymond, nato con il nome di Robin Cook da una ricchissima famiglia inglese, cresciuto tra Londra e il castello avito del Kent, iscritto al prestigioso college di Eton, culla dell’aristocrazia britannica, e da tutto ciò fuggito per immergersi nella vita di strada, in una lunga peregrinazione che lo ha portato in Italia, Spagna, Marocco, negli Stati Uniti e poi di nuovo a Londra, come braccio destro di un boss della mala locale, e ancora in Francia, suo luogo di elezione (anche) culturale e letteraria. Il rifiuto di una vita di privilegi coincide con la vocazione poetica e la alimenta attraverso le esperienze accumulate sulla strada, fino a confluire in una lingua straordinariamente mobile e poetica, modellata suimille dialetti della capitale, e in trame nelle quali la brutalità e la violenza non sono mai gratuite, ma funzionali a un progetto di riscatto che passa attraverso la narrazione. La fuga dalla classica «vita da ricchi» – evocata in tutta la sua infelicità nei primi, splendidi capitoli dell’autobiografia – non conduce a un’illusoria felicità; non c’è traccia di idealizzazione nel racconto degli «anni perduti» di Raymond, che vengono ricostruiti per lampi e singoli episodi, alternati a riflessioni sulla letteratura e sulla propria missione di scrittore. Senza ombra dimaledettismo, Raymond guarda alle sue esperienze come precondizioni per poter scrivere autentici noir e prendere le distanze dai rassicuranti polizieschi à la Agatha Christie (un autentico idolo polemico). L’invito quasi hemingwayano a scrivere di ciò che si conosce in presa diretta è corretto dall’afflatometafisico, dal continuo impegno a violare il confine tra la vita e la morte, o a trasformare la scrittura nel terreno intermedio in cui i vivi e gli estinti possano dialogare. Da qui la vicinanza – dichiarata a più riprese dallo stesso Raymond – all’esistenzialismo francese, a Kafka e insieme ai «grandi folli» del noir americano, che proprio in Francia, e pour cause, si sono trasformati in oggetti di culto mentre il loro paese d’origine li spingeva con disinvoltura nel dimenticatoio; ma anche a una tradizione tutta inglese che, dalla poesia di guerra di Wilfred Owen, passando per l’Eliot di Prufrock e della Terra desolata, arriva fino a Orwell e alle sue allucinate distopie. Un testamento ante litteram Attraverso una genealogia letteraria così insolita e insieme illuminante, nella quale al giallo classico (tradizionalmente considerato contiguo al noir) subentrano come vicini di casa la letteratura di guerra, Sartre, Camus e Orwell, è possibile leggere con un altro occhio e un altro spirito i romanzi di Raymond; magari affiancando alla serie della Factory, e alle pagine più belle e dolenti di Stanze nascoste, un libro meravigliosamente slabbrato e incompiuto come Incubo di strada, che Meridiano Zero ha dato alle stampe lo scorso anno e che il traduttore e fondatore della casa editrice, Marco Vicentini, ha salutato non a torto come una sorta di testamento letterario ante litteram. Nel protagonista Kleber, poliziotto alla deriva in una Parigi piovosa e notturna, e nella sua disperata storia d’amore con Elenya, una prostituta immigrata dall’Europa dell’est, Raymond sembra aver voluto mettere in scena il suo stesso percorso di scrittore, e la sua ricerca di un riscatto che riguarda se stesso non meno dei personaggi che popolano le sue storie. Autobiografia, romanzo sociale, metafisica: una miscela rara, che fa di Derek Raymond, al di là di qualunque etichetta di genere, uno dei più grandi scrittori inglesi del secondo ’900.
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