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Abdullah, il Taliban per caso finito in carcere dopo una lotteria

Nella contabilità  della “War on Terror” c’è un “paziente uno”, un “detenuto alfa” che molto racconta del Sistema Guantanamo, dell’ossessione securitaria di un decennio americano. Si chiama Bensayah Belkacem. E’ un algerino di Warqala, classe 1962.

Nella contabilità  della “War on Terror” c’è un “paziente uno”, un “detenuto alfa” che molto racconta del Sistema Guantanamo, dell’ossessione securitaria di un decennio americano. Si chiama Bensayah Belkacem. E’ un algerino di Warqala, classe 1962.

Il 21 gennaio del 2002, è il primo prigioniero a entrare in ceppi nelle gabbie di quello che allora si chiamava “x Ray” e sarebbe poi diventato “Camp Delta”. Il suo fascicolo personale (di cui il L´Espresso e la Repubblica, media partner di Wikileaks, è in possesso insieme alle altre 778 schede dei detenuti transitati nella baia cubana) conta 15 pagine e non documenta affatto, a differenza di molti altri casi, un “errore”. Ma rende intelligibile come sulla storia opaca di un “sospetto”, l´intelligence di un Paese in guerra possa costruire una gabbia che – è la “raccomandazione” del 28 aprile 2008 che chiude l´incarto di Belkacem – si consiglia debba restare chiusa «a tempo indeterminato, sotto la sorveglianza del Dipartimento della Difesa». Una gabbia che ha finito per imprigionare anche le promesse dell´Amministrazione Obama.
Belkacem, dunque. La scheda della “Joint task Force” che lo ha in carico lo definisce «membro del Gia algerino, coinvolto nel piano di attacco all´ambasciata Usa a Sarajevo, Bosnia». Di più: «Contatto di ufficiali di Al Qaida quali Abu Zubaydah, nonché facilitatore collegato a cellule in Nord Africa, Germania, Turchia, Italia, Francia e Inghilterra». Insomma, «combattente nemico ad altro rischio per la minaccia potenziale che rappresenta nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati». Ma, soprattutto, prigioniero dall´«alta valenza di intelligence». La sua storia, con meno enfasi, dice che è stato arrestato nell´ottobre del 2001 durante un´operazione di polizia locale in Bosnia, dove è arrivato e risiede dal 1995. Gli hanno trovato in casa «63 audiocassette, due video,10 passaporti dai nomi e le nazionalità diverse, di cui uno yemenita, uno algerino, uno bosniaco», agende e «numeri di telefono sensibili». Alla fine del 2001, l´inchiesta della magistratura bosniaca lascia cadere le accuse di terrorismo per cui è stato arrestato. L´Algeria ne rifiuta il rimpatrio. E il 18 gennaio del 2002, Belkacem viene dunque consegnato il 20 di quel mese alle autorità americane, che lo trasferiscono con i primi voli diretti a Guantanamo, dove “X ray” aprirà di lì a due giorni.
Presto, comincia ad essere interrogato. Più volte. Ma le sue risposte non soddisfano. «Il detenuto – si legge nella scheda – omette dettagli chiave sulle ragioni della disponibilità di passaporti. Nega i suoi legami con estremisti, nonostante verificate notizie di intelligence. Ha sostenuto con una delegazione algerina che lo ha interrogato che «custodisce segreti che non può riferire agli americani». Dice di aver fatto un giuramento con Allah di non rispondere alle domande di chi lo esamina». Gli americani, dunque, non credono alla sua storia di giovane algerino che lascia il Paese per fame e prende la via dei Balcani per cercare la sua strada di musulmano nelle Ong che operano in Bosnia. E le cosiddette “prove di intelligence” – di cui non sempre viene indicata la fonte o l´attendibilità – crescono e si appoggiano l´una sull´altra per 8 fitte pagine. Siano «un numero di cellulare», o «una lista di 86 algerini che hanno cambiato la loro identità durante il loro soggiorno in Bosnia» o le testimonianze di chi riferisce di aver avuto a che fare con Belkacem quale «uomo di Al Qaeda nei Balcani».
MALEDETTA “RIFFA”
Naturalmente non è fatta di soli Belkacem, la prigione di Guantanamo. E spesso la “Joint task force” deve arrendersi all´evidenza dell´errore, peggio, della truffa con cui innocenti raccattati sui fronti di guerra sono stati avviati all´Inferno cubano. E´ la storia di Abdullah Bayanzay, afgano di 42 anni, internato numero 360. «Soffre di tubercolosi latente – annota la sua scheda – ma per il resto è in buone condizioni di salute». E´ arrivato a Guantanamo l´11 giugno del 2002, «trasferito per le possibili conoscenze dell´area di Kunduz». Il poveretto della situazione militare di Kunduz non sa un bel nulla. Si è ritrovato intruppato con i Taliban perché «sorteggiato in una lotteria» con cui i vecchi della sua tribù, «per evitare ritorsioni», hanno tirato a sorte chi debba rispondere alla coscrizione. Quella riffa diventa la sua maledizione. Durante la sua breve leva non spara un solo colpo di fucile – «è di guardia a un ufficio del comando talebano a Kunduz» – e l´Alleanza del Nord lo cattura con altri sbandati al passo di Yarganag. Viene venduto agli americani che, il 20 novembre 2002, dopo sei mesi di prigionia, concludono nel solo modo possibile: «Si raccomanda il rilascio o il trasferimento sotto il controllo di altro governo».
L´OBIETTORE DETENUTO DUE VOLTE
C´è anche chi in gabbia è finito due volte. Da obiettore e da “combattente nemico”. E´ Muhamed Raz Muhamed Kakar, 26 anni, afgano dell´Oruzgan, numero di internamento 364. I Taliban lo chiamano alla leva una prima volta, lui obietta «e – annota la sua scheda – per questo motivo viene imprigionato, fino a quando il padre non ottiene la sua liberazione per 20 milioni di afgani (la moneta locale ndr)». «Il 27 ottobre 2001 i Taliban lo arrestano una seconda volta. Lo trasferiscono nella prigione di Kandahar e di qui a Kunduz, dove viene messo di guardia a un deposito di petrolio (…) Dopo 25 giorni, i Taliban tornano a prelevarlo e lo abbandonano nel deserto insieme ad altri coscritti, dove viene fatto prigioniero dalle truppe del generale Dostum». A Guantanamo Muhamed Raz arriva insieme al “prigioniero della riffa” l´11 giugno del 2002. Il suo rilascio viene “raccomandato” il 6 marzo del 2003.
IL MULLAH CON LA MAMMA MALATA
Su qualcuno il destino, se possibile, si è accanito anche con maggior determinazione. Mohmed Allah, afgano, numero di internamento 347, arriva a Guantanamo che ha 30 anni. Il 15 giugno del 2002, dopo che «irregolari lo hanno arrestato nelle strade di Kandahar». Chi lo interroga, dà atto, che, poco prima dell´arresto, il disgraziato «è uscito dall´ospedale cinese della città, dove la madre deve subire un trattamento». «Cerca medicine e dei rapinatori lo derubano dell´auto e di 3 milioni di afgani». Dunque, perché trascinarlo a “Camp Delta”, dall´altra parte del mondo? «Perché – annota l´intelligence Usa – il detenuto è stato il mullah della moschea di Manu, nella provincia di Kandahar e questo lo ha messo nella condizione di aver conosciuto e avuto accesso ai leader Taliban». La stessa intelligence che, il 27 settembre 2002, concluderà che Mohmed Allah «non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti e può dunque tornare libero».

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