Ferrari, il brigatista Mao tornato “cattivo maestro”

Rivendicava in tribunale le azioni dei terroristi, annunciò via Fani.Condannato a 30 anni nello storico processo di Torino, è uscito dal carcere nel 2004 e oggi a 65 anni è diventato un simbolo per i giovani antagonisti 

Rivendicava in tribunale le azioni dei terroristi, annunciò via Fani.Condannato a 30 anni nello storico processo di Torino, è uscito dal carcere nel 2004 e oggi a 65 anni è diventato un simbolo per i giovani antagonisti 

Parla. Chiacchiera. È un torrente. Sette ore di concione con i due specialisti della Digos, cotti dal sole come lui in cima alle scale dei vigili del fuoco, sulla torretta della “Botta”, la più storica delle piscine di Milano, quella dove si tennero i primi campionati nazionali di nuoto del Dopoguerra. Ha una resistenza da Fidel Castro, Paolo Maurizio Ferrari, il compagno «Mao» delle Brigate Rosse in bianco e nero, l´irriducibile scongelato nel 2004 da trent´anni di carcere senza un giorno di permesso, senza un avvocato difensore, senza una visita né un colloquio: li rifiutava tutti. Come i contatti con i giornalisti: l´ultima volta che un cronista ha sentito la sua voce si era in tribunale, a Torino, processo al nucleo storico delle Br di Renato Curcio. Ferrari era l´incaricato di leggere i proclami da dentro le gabbie e il suo esordio, era il maggio 1976, fu una minaccia a chiunque volesse partecipare alle udienze, da giurato o da legale. Un anno dopo venne freddato il presidente dell´Ordine degli Avvocati, Fulvio Croce: a Ferrari toccò la rivendicazione di quel delitto, e anche quella della strage di via Fani il 16 marzo 1978, e il suo nome era nell´elenco dei tredici che le Br volevano far scarcerare in cambio della liberazione di Aldo Moro. Poi arrivarono le condanne, e il silenzio.
Mai un´intervista, mai una conferenza, e anche questo lunghissimo e inedito colloquio con un poliziotto va in scena lontano da orecchie indiscrete, mentre dall´asfalto di via Botta gli antagonisti urlano «Vai Maurizio» e il vecchio e barbuto “prigioniero politico”, il primo brigatista clandestino a finire in carcere il 27 maggio 1974, solleva una mano per salutarli. E chissà cosa si raccontano, lì a venti metri di altezza, e chissà se Ferrari starà raccontando un pezzo della sua incredibile storia. Modenese, classe ‘45, abbandonato bambino a don Zeno Santini, cresciuto lavorando la terra maremmana nella comunità Nomadelfia, Ferrari era stato travolto dall´onda del Sessantotto. Operaio alla Ginori di Torino, poi alla Pirelli di Milano e l´incontro con la militanza. Collettivo Politico Metropolitano, Sinistra Proletaria, Brigate Rosse tra il ‘69 e il ‘70, i sospetti (li avanzerà Alberto Franceschini) di un passaggio nell´ambiguo Superclan di Corrado Simioni. Sono gli albori della lotta armata, non ancora sanguinaria. Ferrari parteciperà ai sequestri del sindacalista Cisnal Bruno Labate, del capo del personale Fiat Ettore Amerio, del magistrato Mario Sossi a Genova. In carcere, parteciperà alla fallita rivolta dell´Asinara del 1979, pagata con altro carcere. Uscito dal carcere di Biella, Ferrari era tornato a Milano. Digiuno di Settantasette, centri sociali e Movimento, l´ex leninista clandestino si era ritrovato a frequentare ambienti antagonisti di due generazioni più piccoli. È sotto il carcere dell´Aquila, nel giugno 2007, a lanciare slogan di solidarietà a Nadia Desdemona Lioce e sfregi alla memoria di Marco Biagi (“Non pedala più”). Vive alla Panetteria Occupata, a Monza, torna ad accumulare denunce per resistenza, violenza e per aver fornito un domicilio falso a un anarchico. Infine eccolo proprio lì, tra gli anarchici di Lab Zero, della Bottiglieria, della Stamperia. Venerato cattivo maestro di rivoluzione.

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