Appartiene al meridionalismo neoverista il nuovo romanzo di Santo Gioffrè, già autore di Leonzio Pilato e Artemisia Sanchez, dal quale la Rai ne ha tratto una fiction televisiva. Con La terra rossa (Rubbettino, pp. 158, euro 16), il lettore è catapultato in un Mezzogiorno ai tempi del fascismo in cui il termine «padrone » è al centro di una mentalità e di un sistema.
Appartiene al meridionalismo neoverista il nuovo romanzo di Santo Gioffrè, già autore di Leonzio Pilato e Artemisia Sanchez, dal quale la Rai ne ha tratto una fiction televisiva. Con La terra rossa (Rubbettino, pp. 158, euro 16), il lettore è catapultato in un Mezzogiorno ai tempi del fascismo in cui il termine «padrone » è al centro di una mentalità e di un sistema.
Gioffrè, fra gli scrittori delle problematiche umane e sociali del Meridione, è capace di richiamare l’attenzione su questioni ataviche di cui il Sud ancora si nutre. Sembra difficile credere che «quelle cose» siano accadute davvero e che l’autore abbia infranto tabù e chiamato con il loro nome lamiseria morale ed economica dei poveri e l’arroganza dei ricchi. In un sud dove la terra èmossa dallo scirocco, terra sollevata in aria da chi cade a terra morto ammazzato e la sporca di sangue, terra immobile nel suo immobilismo. In questo romanzo storico-sociale a determinare le azioni delle persone sono i pregiudizi, le infamie della catrica (forma di strategia denigratoria finalizzata alla demolizione morale e alla morte civile e fisica di una persona), i riti ancestrali, retaggi di ignoranza che non auspica una rinascita. Qui siamo in presenza di un romanzo in cui il romanzesco viene volutamente messo da parte dall’autore per dare spazio ai veri protagonisti, che non sono persone in carne ed ossa ma prodotti sociali di una realtà immobile e feudale: sono ciò che è stato generato dalla ‘ndrangheta, dall’emigrazione, dall’analfabetismo, dalle malattie e dalle catastrofi, dalle guerre, dalle ruote sacrificali per i nati fuori matrimonio, dagli scandali diplomatici per partite di olio «truccate ». Una novità letteraria che, nel mentre ritorna alla tradizione letteraria meridionale, la rigira per dare spazio ad una forma che arricchisce la semantica, impregnata di termini medici, di una nuova linfa: ritmo concitato, freschezza di immagini dal sapore cinematografico, in un’armonia di fabula ed intrecci. Romanzo forte nei contenuti, deciso nella scrittura e diretto nel trasferimento dell’intenzionalità dell’autore. Il dottor Ciccio d’Alessandro (1890-1935) è un giovane bello ed esuberante, rampollo di una nobile famiglia di un non precisato paese lambito dal fiume Petrace, vicino Palmi, in Calabria. È un medico, soprannominato «’u signurinu» per la sua ritrosia almatrimonio, amante di Omero, nonostante di patriottico spirito guerriero e veemente contro i socialisti, viene dichiarato volutamente «non idoneo» per fare il soldato durante la Grande guerra. Amante dei bordelli di MadameMarie a Napoli, preferiva averemantenute più che amanti, perché le prime sono esclusive di un unico seme e quindi protette dalla sifilide. In un angolo campeggia Saverio, suo figlio illegittimo, figlio di serva, figlio «mulo», essere ibrido che non poteva inorgoglirsi delle origini. Proprio il «mulo» farà quadrare i conti e don Ciccio, con la terra rossa in bocca, capirà che non è stato l’uomo a creare Dio. Un romanzo storico in cui i fatti narrati sono realmente accaduti e i personaggi esistiti: fatti veri,ma corali che appartengono a un meridione autentico che vive di quella mentalità padronale nata da molto lontano, dal feudalesimo soprattutto e che purtroppo neanche l’Italia post-risorgimentale è riuscita a debellare. Gli ingredienti ci sono tutti, compresa la ‘ndrangheta che nel romanzo non c’è come sistema, ma come presenza operante dei «picciotti». Un Meridione non molto lontano e che tuttora risente di certi condizionamenti. Di certe regole e di certe mancanze.
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