Dal dibattito sul neoambientalismo emergono consapevolezze diffuse e condivise sui disastri da fermare, sui problemi da affrontare. Certezze che divengono assai minori, vanno in dissolvenza, allorché dalla denuncia si prova a passare alla proposta. Qui emergono differenze di strategie,di riferimenti, di contenuti, di soggettività . È di non poca problematicità la ricerca del «piano economico e sociale alternativo» richiesto da Giorgio Cremaschi.
Dal dibattito sul neoambientalismo emergono consapevolezze diffuse e condivise sui disastri da fermare, sui problemi da affrontare. Certezze che divengono assai minori, vanno in dissolvenza, allorché dalla denuncia si prova a passare alla proposta. Qui emergono differenze di strategie,di riferimenti, di contenuti, di soggettività . È di non poca problematicità la ricerca del «piano economico e sociale alternativo» richiesto da Giorgio Cremaschi.
Tuttavia gli studenti sui tetti del patrimonio artistico-culturale (il bene di cui ospitiamo in Italia più di 2/3 del totale esistente nel mondo) mostrano ciò su cui è utile puntare: la tutela e la valorizzazione del territorio, bene comune che, con l’intelligente – e quindi sostenibile – applicazione dell’innovazione tecnologica, può disegnare lo scenario, il canovaccio del prossimo grande racconto che andiamo cercando. Oltre alla convergenza sui problemi e disastri da bloccare, c’è una comune propensione ad «usare con le pinze, ormai forse solo per dismetterla, la parola sviluppo». In effetti, nel terzo millennio della crisi eco-eco, la divaricazione tra benessere e crescita economica pensiamo che sia condivisa, perlomeno tra i soggetti dotati di unminimo di buon senso. Tuttavia non basta insistere sul – pur fondamentale – blocco della deterritorializzazione e del degrado ambientale e paesaggistico (e sociale e culturale) per uscire dalla crisi. Bisogna individuare i settori in grado di produrre lavoro e reddito.Non necessariamente e non tanto sotto forma di merci materiali. E soprattutto «esteticamente limitato». I monumenti, si diceva. Da tempo non sono più solo gli studiosi del settore, come Salvatore Settis, ad indicare nella necessità di andare oltre la tutela del patrimonio culturale, per trasformarla in valorizzazione, intrecciandola ed integrandola con gli investimenti in alcuni settori: educazione, conoscenza, ricerca, cultura, turismo intelligente e sostenibile. Oggi le posizioni già espresse da specialisti,cultori del patrimonio artistico, sono diffuse tra studiosi ed esperti di molte altre discipline, da Paul Ginsborg a Renato Nicolini,da Bernardo Rossi Doria a Piero Bevilacqua, a Osvaldo Pieroni. Costoro ed altri studiosi hanno anzi arricchito il dibattito di molti contenuti. Settis sottolinea come la fondamentale esigenza del blocco del clamoroso consumo di suolo registratosi di recente in Italia – più che in Europa ed in Occidente,dove pure è stato notevole – sia difficilmente perseguibile, se «il paesaggio non torna ad essere un oggetto complessivamente denso di senso», come avveniva nell’Italia di qualche decennio fa descritta da Emilio Sereni. Oggi non bastano le neo-produzioni agricole, biologiche, ad «impatto e chilometro zero», per riempire di significato il territorio ed i suoi luoghi;che bisogna reintepretare infatti anche come «spazi delle produzioni immateriali», culturali e scientifiche, cui si accennava prima. Oppure come luogo della funzione intelligente, ludica, riflessiva e edcativa (il contraltare del paesaggio «solo produttivo o solo contemplativo», ciò per cui viene suggerito da Paolo Baldeschi il termine di contempl- azione). Tra le azioni intelligenti da attuare c’è certamente l’uso sostenibile della new tech, caro a Guido Viale, allorché si prova ad abbattere gli impatti delle produzioni industriali e dei trasporti e più in generale a rispondere alla crisi del secondario con una riterritorializzazione ecologica dell’industria. Che significa certamente una trasformazione dei modi del consumo – compreso quello di mobilità – e della produzione energetica con l’abbandono (tendenziale, ma non troppo lento) delle fonti fossili, nucleari e impattanti, a favore delle rinnovabili. La green economy non necessita dunque solo di territorializzarsi,ma deve essere localizzata. O meglio «glocalizzata». Nel senso di attitudini generalizzate che diventano strategie specifiche locali. Il potere della «nuova estetica strutturale» deve essere intelligentemente fruito: l’armonia di un paesaggio nuovamente riempito di senso fornisce infatti cifre e misure di ciò che si può fare nei diversi luoghi. Non tutto infatti può realizzarsi ovunque, anche ciò che appare non impattante e innovativo (si pensi al disastro dei parchi eolici in brani assai significativi di paesaggio costiero del Sud). È interessante, forse, notare come, per strade affatto diverse, molti degli attori scientifici e culturali citati, siano giunti a posizioni analoghe, se non identiche, a quelle del progetto territorialista di Alberto Magnaghi. Il suo «progetto locale di sviluppo autosostenibile » è frutto di un percorso interdisciplinare, ma interno soprattutto al campo urbanistico, e frutto di elaborazioni specifiche di quell’ambito e dintorni. Oggi incontra traiettorie culturali affatto diverse, che vi giungono anche da riflessioni generali sulla società, non solo italiana. Tutti sono d’accordo sulla necessità di battere le «idee antiecologiche» di questi anni. Presenti anche a sinistra, come ricordava Enzo Scandurra. Da tempo tutti gli autori e le aree che rappresentano sostengono che la più grande opera pubblica del nostro paese debba essere rappresentata dal risanamento del territorio. Il ripristino della difesa del suolo va coniugata alla citata riqualificazione del paesaggio e passa per la ricostituzione degli apparati «organismici» del territorio. Questo significa blocco del consumo di suolo e – come ha detto un architetto non urbanista quale Renzo Piano – il «ridare senso estetico a tutta la schifezza che abbiamo prodotto nella seconda parte della modernità». Ancora lo smantellamento delle produzioni inquinanti, la trasformazione «ecologica e sostenibile» dei trasporti, la «filiera corta» per le produzioni, non solo alimentari. La fine del berlusconismo deve portare con sé l’abbandono di tutte le leggi emergenziali che in questi anni sono state le cifre della magica capacità del Cavaliere e delle sue armate di trasformare i problemi in affari : grandi opere inutili e dannose per la mobilità (valga per tutti l’alta velocità per lemerci, bizzarria paradossale oggi venduta come normale istanza di sviluppo), nucleare e carbone per l’energia, i termovalorizzatori, le nuove Case antisismiche, le rottamazioni e ricostruzioni. Gli attori protagonisti di tale svolta si sono già presentati negli ultimi anni: sono i difensori del territorio, comitati, forum, associazioni, movimenti, che in questi anni hanno continuato a tutelare ed affermare i valori del territorio contro tutte le aggressioni travestite da sviluppo. L’idea di rete delle reti è buona, se opera screening critici, ovvero tiene conto della necessità di contestualizzazione degli attori. Che presentano tipologie affatto diverse, ora più antagoniste, ora più tecnico-culturali, ora più autogestionali. Per tutti è necessario andare oltre alla mera difesa, per proporre scenari di futuro del territorio, in logiche di autogoverno. Con la consapevolezza che tale «massa critica» deve pressare e talora invadere fertilmente i tavoli della politica istituzionale. Così come può orientare il piano «economico e sociale alternativo», richiesto da più parti.
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