Dall’Uruguay giunge la notizia della presentazione in Parlamento di una proposta di legge per la legalizzazione della coltivazione per uso personale della canapa. L’Uruguay è un paese che ha abbandonato la «war on drugs» e recentemente ha avuto una svolta politica progressista.
Dall’Uruguay giunge la notizia della presentazione in Parlamento di una proposta di legge per la legalizzazione della coltivazione per uso personale della canapa. L’Uruguay è un paese che ha abbandonato la «war on drugs» e recentemente ha avuto una svolta politica progressista.
La legge non criminalizza l’uso personale di droghe e il governo dà la priorità al perseguimento dei grandi spacciatori invece di concentrare risorse ed energie contro i pesci piccoli. Nell’ultimo decennio, si è mostrata una certa larghezza di vedute soprattutto verso la marijuana: la norma non punisce il possesso di un cosiddetto «ragionevole quantitativo» per consumo personale, la cui legittimità è affidata alla discrezionalità del giudice. Dal 2007, diversi gruppi di attivisti pro-canapa hanno aperto un confronto con le autorità per chiedere la legalizzazione della auto coltivazione. La vicenda è però esplosa nello scorso gennaio quando una giudice, Adriana Aziz, ha imprigionato Alicia Castilla, nota militante, autrice di due volumi sulla cultura della canapa e che pubblica ogni anno un Almanacco sulla coltivazione biodinamica della marijuana. È così scoppiata la contraddizione di una legge che contemporaneamente vieta la coltivazione e ammette il possesso di una «ragionevole» quantità di sostanza per il consumo privato. Il 24 febbraio si è svolta una manifestazione davanti alla Suprema Corte per la liberazione di Castilla e di altri 350 persone condannate per il possesso di piccole quantità di marijuana. Il portavoce della Suprema Corte Raul Oxandabarat in una conferenza stampa ha ammesso l’esistenza di un vuoto legislativo e lo Zar antidroga Milton Romani ha riconosciuto che «non è prudente incarcerare una donna che chiaramente non costituisce alcun pericolo per la salute pubblica». Immediatamente la politica ha battuto un colpo: il deputato Sebastian Sabini del Movimento di partecipazione popolare (Mpp), ha presentato una proposta di legge per la legalizzazione della canapa, stabilendo la liceità del possesso fino a 25 grammi e della coltivazione domestica fino a otto piante femmine. Sabini è un esponente del maggior partito della coalizione di governo e ha trovato l’accordo con Nicolas Nunez, leader del Partito Socialista. Anche parlamentari dell’opposizione hanno predisposto un testo di riforma ma lasciando al giudice la valutazione sulla destinazione della sostanza detenuta, se per uso o per spaccio. Sono interessanti le analogie con la situazione giuridica italiana, in ambedue i paesi le norme ricalcano i trattati Onu: l’articolo principale (il 73 della legge italiana, il 3 di quella uruguayana) criminalizza indiscriminatamente tutte le condotte, dal traffico, alla coltivazione, al possesso. Le norme che in Uruguay depenalizzano il possesso di «ragionevoli quantità» (in Italia infliggono solo punizioni meno drastiche) si presentano come una sorta di «eccezione » alla norma generale e rimane la questione se la coltivazione ad uso personale debba essere equiparata alla detenzione. In Italia, una recente sentenza del tribunale di Milano stabilisce l’equiparazione, nonostante altre sentenze della Cassazione di segno (ne ho scritto sul manifesto, 11/2/2010). Quanto alla politica, il capo del Dipartimento antidroga italiano, Giovanni Serpelloni si diletta a commissionare studi sui pretesi danni dell’uso di cannabis, mentre nel mondo si ragiona su come eliminare i danni certi prodotti dall’incarcerazione per una sostanza a minor rischio come la marijuana. Carlo Giovanardi (cui si deve la legge che ha equiparato tutte le droghe e ha contribuito a riempire le galere di tossicodipendenti e presunti spacciatori) sostiene che in Italia il consumo non è penalizzato, ma sanzionato solo in via amministrativa. Non è così, perché la detenzione di una quantità superiore a quella stabilita (tramite semplice decreto del ministro della sanità) apre le porte delle prigioni (da sei a venti anni di carcere, da uno a sei solo in caso il giudice riconosca la «lieve entità» del reato). Qualche anno fa, Ethan Nadelmann, direttore della Drug Policy Alliance, intitolava un saggio sulla politica globale delle droghe «L’Europa ha qualcosa da insegnare all’America». Dopo l’autorevole appello dei tre ex presidenti sudamericani Cardoso, Gaviria, Zedillo a superare la «guerra alla droga», dopo la richiesta di Evo Morales di emendare i trattati Onu per legalizzare la foglia di coca, possiamo dire: l’Europa ha qualcosa da imparare dall’America Latina. (dossier sulla politica delle droghe in Sud America su www.fuoriluogo.it )
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