In occasione del diciassettesimo anniversario del genocidio ruandese, abbiamo tradotto la testimonianza di una sopravvissuta al massacro ">

Ruanda, per non dimenticare

In occasione del diciassettesimo anniversario del genocidio ruandese, abbiamo tradotto la testimonianza di una sopravvissuta al massacro

In occasione del diciassettesimo anniversario del genocidio ruandese, abbiamo tradotto la testimonianza di una sopravvissuta al massacro

Come accadde che il Paese delle mille colline si trasformò nel Paese del milione di croci è una questione semplice e complessa al tempo stesso. Il massacro fu la conseguenza di una politica inaugurata dal Belgio, la potenza europea che colonizzò il Ruanda, che per governare la colonia si appoggiò al gruppo sociale minoritario, i Tutsi,  a discapito della maggioranza Hutu. Con il tempo e l’influenza belga, questa distinzione da sociale divenne etnica. Con la fine del colonialismo cambiarono molte cose. Il post-indipendenza era stato caratterizzato dalla rivoluzione Hutu e molti Tutsi erano stati costretti a lasciare il Ruanda. Nel 1990, però, ai confini premeva una formazione armata composta prevalentemente da esuli Tutsi, il Fronte patriottico ruandese dell’attuale presidente Paul Kagame, che con il sostegno dell’Uganda invase il nord del Paese per rovesciare il governo. Questa minaccia fu linfa provvidenziale per la propaganda di quest’ultimo, che seminò un odio viscerale nei confronti della popolazione Tutsi, mentre nel frattempo venivano armate milizie spietate come l’Interhamwe e gruppi fanatici come il Reseau Zero (zero Tutsi nel Paese, ndr) facevano proseliti. La situazione precipitò costantemente in tutti i primi anni Novanta, nel corso dei quali si diffuse l’ideologia dell’Hutu Power. Quando il 6 aprile 1994 il presidente Juvénal Habyarimana rimase vittima di un attentato, la violenza esplose. In tre mesi furono uccisi tra gli 800 mila e il milione di ruandesi, Tutsi e Hutu modrati o dissidenti, con la benedizione dei media che avevano preparato il terreno ai massacri – Radio Mille Colline e il quotidiano Kangura – e nell’indifferenza occidentale. Il genocidio era stato pianificato con cura. Oggi, lunedì 11 aprile, mentre a Kigali si svolge la commemorazione solenne, Peacereporter pubblica la testimonianza di una ragazza che riuscì a scampare alla furia genocida. Il genocidio ruandese resta una delle pagine più dolorose e imbarazzanti della nostra storia recente. Non vanno però dimenticate nemmeno vicende connesse ma di violenza a parti invertite, come il massacro di migliaia di Hutu (molti dei quali semplici civili) inseguiti fino in Congo e barbaramente uccisi, e la controversa legge anti-genocidio, che punisce  il negazionismo ma che è stata (ed è) spesso usata per silenziare opposizione e critici del regime di Kagame.

Prima del genocidio, vivevo con mio padre, mia madre, due sorelle e quattro fratelli a Nyarubuye. Negli anni tra il 1990 e il 1992, le persone vivevano insieme e tutto andava bene. Le cose cominciarono a cambiare tra il 1992 e il 1993: tu eri in classe e gli altri ti chiedevano se eri una Tutsi. Essendo solo una bambina, non capivi e dicevi semplicemente “Si”. Da quel momento, diventavi vittima del bullismo, soprattutto da parte degli studenti più grandi che volevano le tue cose e ti minacciavano. Ti rendevi conto che alcune persone non avevano più nessun valore.

Quando l’aereo del presidente Habyarimana fu abbattuto, il 6 aprile del 1994, noi eravamo tutti a casa. Vedemmo la gente correre in tutte le direzioni. Quando gli aggressori cominciarono a bruciare case, noi fuggimmo verso la parrocchia. Venerdì 15 aprile, la milizia dell’Interhamwe la circondò. Con i soldati c’era il maggiore Gacumbitsi che disse alla sua truppa: “Prendete i vostri attrezzi e mettetevi al lavoro. Tu colpisci i serpenti sulla testa per ucciderli”. Loro cominciarono a uccidere. La notte se ne andarono, ma tornarono il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Io mi sdraiavo tra i corpi e cercavo di trattenere il respiro. Loro tiravano pietre o afferravano bambini e li lanciavano per aria. Mi tirarono una pietra, urlai; mi presero e mi portarono fuori, dove mi picchiarono insieme a quelli che erano solo feriti. Chiesi pietà ma uno dei nostri vicini, Pascal, disse: ” Riconosco questa marmocchia, non è forse della famiglia Bikoramuki? I suoi non sono tutti morti? E allora, è così difficile sistemare anche lei?”. Mi prese a calci e mi sputò, dicendo che non si sarebbe sporcato col mio sangue. Così mi passò a un suo compagno, che si chiamava Antoine, dicendogli: “Uccidila”. Antoine prese un tubo e mi colpì sulle dita finché le ossa non si spappolarono. Poi mi tagliò la testa con un machete. Non ricordo cosa accadde subito dopo.

Quando mi svegliai, era notte. C’era un forte vento, aveva piovuto e faceva freddo. Ero ricoperta di sporcizia e di sabbia. Guardai le persone intorno a me: erano tutte morte. Cominciai a muovermi in direzione di una montagna di cadaveri, in modo che gli aggressori pensassero che ero morta anche io. All’alba, avevo una gran fame. Non potevo camminare, così strisciavo di schiena e quando sbattevo contro un cadavere, gli rotolavo sopra. Arrivai in un luogo un cui c’era un rubinetto ma non potevo raggiungere l’acqua. Tornai nella stanza in cui mi trovavo prima e mi nascosi tra i cadaveri. Erano lì da tre giorni e quindi puzzavano. Quelli dell’Interhamwe passavano spesso ma senza entrare, mentre entravano i cani per mangiare i corpi. In quella stanza ho trascorso 42 giorni. Il quarantatreesimo, uno dell’Interhamwe mi trovò. Mi disse di aspettare lì e se ne andò. Quarantacinque minuti dopo, arrivarono alcuni soldati dell’Rpf in compagnia di un francese. Ero in condizioni terribili: le mie dita stavano peggiorando e le ferite alla testa erano piene di pidocchi. Mi portarono all’ospedale di Kibungo, dove trascorsi sei mesi.

Dopo che fui guarita, scoprii che si era salvato anche un mio fratellino, Gahini. A causa del genocidio, molti bambini sono rimasti traumatizzati ma non è il mio caso. Dovevo abituarmi alla perdita delle dita e alle cicatrici. All’inizio avevo dei complessi e nascondevo le mani ma adesso è tutto ok. Mio fratello ed io siamo stati fortuanti a poter vivere con nostro cugino. Lui è una specie di fratello maggiore, di madre e di padre per noi. Gli confidiamo tutti i nostri problemi. Lui ci paga la retta scolastica e ci accudisce quando stiamo male. Il processo di riconciliazione continua e noi speriamo che in Ruanda le cose possano ritornare come erano un tempo. Ma io non dimenticherò mai e racconterò tutto quanto ai miei bambini. All’inizio non volevo dare la mia testimonianza perché questa è come un segreto. Non si può dirlo a chiunque. Ma parlare è un modo di combattere coloro che negano quanto è accaduto ed è importante per questa ragione.

Testimonianza di Valentine Iribagiza, pubblicata sul sito del Kigali Memorial Centre

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