Quelle lingue infuocate di Marcinelle

I nostri emigranti nella tragedia in miniera del 1956

I nostri emigranti nella tragedia in miniera del 1956

Paolo Di Stefano è uno dei pochi giornalisti culturali ancora attivi sui nostri quotidiani: colto, curioso, discreto, ironico. E’ anche romanziere sensibile, attento soprattutto alle derive familiari, alle esistenze fragili e straziate di bambini e adolescenti, alla solitudine delle anime, all’ ambiguo scambio di ruoli tra carnefice e vittima nei rapporti personali.
Partendo quasi sempre dalla realtà, elabora narrativamente le sue storie seguendo percorsi che si intersecano nello spazio e nel tempo, moltiplicando così i punti di vista. Negli ultimi romanzi (come in Nel cuore che ti cerca , Rizzoli, liberamente ispirato alla vicenda di Natasha Kampusch) la polifonia è anche linguistica, con inserti lessicali di differente timbro stilistico e sociologico. Credo che la ricerca formale sia per lui non una pura esigenza letteraria, ma un modo di contenere, e filtrare, la rabbia e lo sgomento causati dalla tragicità del quotidiano. E che questa cifra saldi nel profondo l’attività di cronista e quella di romanziere.
A esempio il suo ultimo libro, La catastròfa , ha per tema l’incendio scoppiato l’ 8 agosto 1956 nella miniera di Marcinelle, Belgio, a 975 metri sotto terra, nel quale su 274 minatori di turno ne morirono 262, di cui 136 erano immigrati italiani.
E’ indubbio che in prima istanza si tratta di una rievocazione giornalistica che dà voce ai testimoni ancor vivi di una tragedia dimenticata; una tragedia che, come quasi sempre in questo tipo di disgrazie, non ha niente di fatale ma è il risultato di responsabilità ben individuabili. Si aggiunga come aggravante l’incuria e la sostanziale indifferenza dello Stato italiano verso cittadini costretti a emigrare e da cui pur ricavava, in seguito a un accordo stipulato col Belgio nel 1946, quelle tonnellate di carbone (da 2500 a 5000 ogni mille minatori) che consentirono la ripresa postbellica e l’inizio del «miracolo economico». Senza contare le rimesse degli emigranti alle famiglie rimaste in Italia.
Ma il lavoro cui Di Stefano sottopone il materiale linguistico non è quello dell’inchiesta (ovviamente ne faccio una questione di registro, non di valore). Diversamente caratterizzate anche graficamente, si intrecciano sulla pagina tre narrazioni, con tre diversi linguaggi: quella, apparentemente referenziale, dell’autore che racconta, spiega e introduce i personaggi, come il corifeo nella tragedia antica; quella dei superstiti, che parlano in un italiano francesizzato o in dialetti italianizzati (centromeridionali, per lo più, ma anche veneti: se le leggessero, queste pagine, i volonterosi elettori della Lega!) o in un inedito franco-italian-dialettale; e quella «ufficiale», di volta in volta cinica nella sua impersonalità burocratica, o ipocrita, a nascondere con la retorica inefficienza e disinteresse, o furbastra, a coprire responsabilità personali e istituzionali.
Ne emerge il ritratto di un’Italia in bianco e nero, come nella bella immagine di copertina, come in un film di Giuseppe De Santis, come in certe foto di William Klein. Un’Italia povera e vinta, untuosa e un po’ fetida. Un’Italia che purtroppo non muore mai: cambian le modalità, non la sostanza.
Ma ad allontanare ogni sospetto di facile neorealismo c’è il montaggio abile e nervoso di questo reportageromanzo, in cui voci e tempi si alternano come in un testo teatrale, in cui tutti i personaggi, pur ripetendo la medesima vicenda, risaltano con caratteri e peculiarità individuali. E a me, leggendolo, forse non a caso è venuta in mente L’istruttoria , il famoso oratorio in undici canti di Peter Weiss sul processo contro un gruppo di SS e di funzionari del campo di Auschwitz.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password