Le idee che hanno emancipato l’uomo

Le lettere di Gramsci dal carcere chiudono la collana: 40 pietre miliari della civiltà  occidentale  Alla loro uscita, nel 1947 da Einaudi, le Lettere dal carcere furono subito un successo.

Le lettere di Gramsci dal carcere chiudono la collana: 40 pietre miliari della civiltà  occidentale  Alla loro uscita, nel 1947 da Einaudi, le Lettere dal carcere furono subito un successo.

Era il primo volume delle opere di Antonio Gramsci (i Quaderni, pubblicati sempre da Einaudi, uscirono tra il 1948 e il 1951), che dovevano restituire alla cultura le riflessioni di uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, e dare così libera circolazione a un pensiero rimasto sequestrato dai lunghi anni della prigionia. Con le Lettere si intendeva fornire il ritratto di un politico, un pensatore, un uomo praticamente sconosciuto ai più. C’era, sì, l’impegno del Pci a ricordare il suo segretario, ma della sua vicenda umana e, ancora di più, del suo lavoro teorico non si conosceva quasi niente. Già nella primavera del ’ 47, si erano vendute circa 12 mila copie delle Lettere dal carcere. E Leonida Repaci, fondatore del Premio Viareggio, volle fortemente che il premio di quell’anno fosse assegnato a quel libro, in deroga al regolamento che prevedeva solo opere di autori viventi. Su giornali e riviste, intanto, erano uscite recensioni a firma dei più importanti protagonisti della cultura, da Croce a Debenedetti a Gatto, Emanuelli, Calvino. Non risulta che qualcuno abbia mosso l’obiezione di un riconoscimento dedicato a romanzi e racconti e invece assegnato a una raccolta di lettere. E non solo per la bellissima prosa, lo stile piano senza retorica, i pregi letterari. Ma forse perché fu subito colto il carattere di un testo che si libera dal carattere occasionale dello scambio di corrispondenza per diventare il racconto di una storia umana e intellettuale sullo sfondo di un periodo «in cui — scrive Alfonso Gatto— si andava facendo il deserto» . Memorie, autobiografia, romanzo. È il punto che a Italo Calvino preme affermare quando scrive: «Questa raccolta di lettere familiari resterà nella cultura italiana con il valore di un libro organicamente scritto e sarà letto dalle nuove generazioni come un libro di memorie. E del libro di memorie e del grande romanzo ha l’ampiezza, l’intrecciarsi di mondi e di filoni» . Del resto, lo stesso Gramsci, scrivendo nel dicembre 1930 alla cognata Tania Schucht, si poneva la domanda sul senso delle sue lettere. Lamentandosi del fatto che la moglie Julia, a Mosca con i due figli Delio e Giuliano, rispondesse raramente e a intervalli troppo lunghi, scriveva: «Non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi. Altrimenti mi sembra di scrivere un romanzo in forma epistolare, che so io, di fare della cattiva letteratura» . Certo, tanti motivi spiegano la difficoltà del dialogo: i ritardi burocratici, la censura, i silenzi sul ricovero di Julia in una casa di cura per malattie nervose, le domande che Gramsci si pone sulla condotta del partito nei suoi confronti (più volte torna sulla «strana lettera» di Ruggero Grieco ricevuta nel carcere di Milano nel 1928), la cautela con cui il prigioniero fa conoscere le sue condizioni di salute e la prudenza che raccomanda, tramite Tania e l’amico Piero Sraffa, ai compagni all’estero nelle iniziative per la sua liberazione. Però, nel febbraio del 1933, sempre a Tania, Gramsci scrive: «Ciò che è scritto, acquista un valore “morale”e pratico che trascende di molto il solo fatto di essere scritto, che pure è una cosa puramente materiale» . Quindi, niente cattiva letteratura, semmai pagine che hanno un valore morale e pratico, che raccontano la storia di un uomo incarcerato per le sue idee politiche. E, insieme, raccontano la storia, nel suo farsi, di un pensiero che affronta i nodi cruciali della politica e della storia italiana. La raccolta si apre il 20 novembre 1926, subito dopo l’arresto, dal carcere di Regina Coeli a Roma, e si chiude nel dicembre 1936, dalla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci era arrivato nell’agosto 1935, dopo due anni passati nella clinica Cusumano di Formia. La prima e l’ultima lettera sono indirizzate alla moglie Julia, seguono poi otto lettere senza data ai due figli. Attraverso la corrispondenza si seguono gli spostamenti del detenuto, da Roma al confino di Ustica, poi Milano, da qui Roma per il processo davanti al Tribunale speciale (nel 1928 Gramsci viene condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione), quindi Turi di Bari. Descrive, Gramsci, con ricchezza di dettagli i diversi luoghi di pena e, insieme, le sue condizioni fisiche e psichiche. Il 20 novembre 1926 Gramsci scrive alla madre, esortandola a essere «forte e paziente nella sofferenza» . E aggiunge: «Di’ a tutti che non devono vergognarsi di me» . Il tema del carcere come vergogna tornerà più volte nelle lettere alla madre, che ricordava bene un altro carcere, quello del marito Francesco, condannato per peculato e concussione nel 1898: Francesco perse il lavoro e la famiglia numerosa visse in grandi ristrettezze. Così, più volte, continuerà a dire alla madre e alla sorella Teresina che la sua prigionia «è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per chissà quanto tempo ancora» (20 febbraio 1928). E poco dopo, alla madre (12 marzo 1928), dicendole che è «la posizione morale» che dà «la forza e la dignità» , aggiunge: «Il carcere è una bruttissima cosa; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria» . Si apre qui l’altro grande motivo-guida: il rifiuto a inoltrare domande di grazia. Così, nel gennaio del 1930, cita Silvio Spaventa, recluso nelle carceri borboniche dopo il fallimento del 1848 napoletano: «Egli fu dei pochi — una sessantina — che dei più che seicento condannati nel ’ 48 non volle mai fare domande di grazia al re di Napoli» . Più tardi (maggio 1932) ricorda l’episodio di Federico Confalonieri, prigioniero allo Spielberg con Pellico, che «ridotto al massimo grado di avvilimento e di abbiezione» inoltra suppliche all’imperatore per essere liberato. Sono, ovviamente, messaggi trasversali per i compagni di fuori, ma è anche il consapevole riconoscimento di una comunità di destino con tutti gli intellettuali imprigionati per le loro idee. A cui la scelta di non piegarsi, di non abiurare le proprie convinzioni, dette la forza di resistere. Dal 1931 in poi Gramsci conosce gravi crisi fisiche e un progressivo degrado delle sue forze. L’isolamento e la difficoltà di comunicazione con l’esterno turbano i lunghi giorni della prigionia e lo vediamo sempre più assillato da domande a cui non trova risposte: sui rapporti con Julia e la famiglia Schucht a Mosca, sui rapporti con il partito e con l’Internazionale comunista. Eppure non vuole venir meno all’impegno di studio che si è proposto fino dal 1927, quando scrive alla cognata «che bisognerebbe far qualcosa für ewig» e fa un primo elenco dei temi dei Quaderni. E soprattutto non vuole cedere. In una delle ultime lettere alla moglie (25 gennaio 1936) scrive: «Io mi trovo in questa situazione (di coercizione, ndr) da molti anni, forse dallo stesso 1926, subito dopo il mio arresto, da quando la mia esistenza è stata, bruscamente e con non poca brutalità, costretta in una direzione data da forze esterne e i limiti della mia libertà sono stati ristretti alla vita interiore e la volontà è diventata solo volontà di resistere» .

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