Anomalia Trieste

TRAIETTORIE INEDITE PER UNA CITTà€ IN TRANSITO

Nel romanzo postumo Dolodi di Stelio Mattioni, un cupo confine segna la vita dei protagonisti. E i confini riaffiorano nell’Antenato sotto il mare di Pietro Spirito e in Piazza Oberdan di Boris Pahor. Ma più che una fuga all’indietro, si avverte la consapevolezza di una tradizione differente, che indica nuove vie da percorrere

TRAIETTORIE INEDITE PER UNA CITTà€ IN TRANSITO

Nel romanzo postumo Dolodi di Stelio Mattioni, un cupo confine segna la vita dei protagonisti. E i confini riaffiorano nell’Antenato sotto il mare di Pietro Spirito e in Piazza Oberdan di Boris Pahor. Ma più che una fuga all’indietro, si avverte la consapevolezza di una tradizione differente, che indica nuove vie da percorrere

Città che rode il fegato per Joyce, senza passato e gestita da ciurme di speculatori per Marx, polveriera per Marinetti, mentre Montale, in una visita, domandava se la sua gente si odiasse ancora così tanto. Gli aneddoti su Trieste si sprecano, e tutti concorrono ad alimentare il mito della città diversa, che attrae e respinge, dalla quale si vuole fuggire ma dove volenti o nolenti si fa ritorno, perlomeno per essere seppelliti nel cimitero di S. Anna, che oltre centocinquant’anni accoglie cattolici, ebrei, protestanti, greco-orientali, serbo-ortodossi, musulmani, oltre a soldati di molte nazionalità morti tra la prima e la seconda guerra mondiale. Nonostante il cimitero sembri essere oggi il luogo più cosmopolita e vivace della città, ridotta ad appendice del profondo Nord-Est, il suo fascino su scrittori di ogni genere e generazione persiste. E anzi, a giudicare dal numero di libri editi (o riediti) negli ultimi mesi, si direbbe che abbia dato vita a una sorta di piccolo filone a sé.
Coniata da Ugo Pierri negli anni ’90, l’immagine della Trieste-necropoli calza a pennello per L’imbalsamatrice di Mary Barbara Tolusso, autrice all’esordio narrativo dopo alcuni significativi volumi di versi (Gaffi, pp. 279, euro 18). Un romanzo di formazione in cui si mescolano ingredienti di vari generi (erotico, pornografico, pulp), e sul cui sfondo si staglia una città di vecchi, claustrofobica, imprigionata in un passato di cui non si riesce a liberare. «Solo a Trieste può sopravvivere il grande mito dei morti» afferma caustica N., il personaggio femminile attorno cui ruota l’intera vicenda, una giovane donna che divide il suo tempo tra maquillage di cadaveri in un’agenzia di pompe funebri e incontri sessuali con donne incontrate sul web o al bar, pur essendo innamorata di un uomo. Attraverso un gioco di specchi eros-thanatos, Tolusso parla di corpi fatti a pezzi dalla solitudine, dalla violenza, dai pregiudizi. E dice che l’amore, o meglio, l’affetto – eterosessuale, omosessuale, bisessuale – può tentare di ricomporre quelle fragilità.
Memorie sommerse
Pulsione di morte e desiderio sessuale, del resto, dominavano già La dura spina di Renzo Rosso, uno dei capolavori della letteratura triestina del secondo Novecento, pubblicato nel ’63 grazie all’interessamento, tra gli altri, di Gadda e Bassani, e da poco ristampato per Isbn (pp. 347, euro 13). Ermanno Cornelis, concertista di fama internazionale, torna nella sua città d’origine nel dicembre del ’45 sulla soglia dei sessant’anni, covando i primi segni di una malattia che lentamente si fa strada nella sua vita, assieme al ricordo della madre e a una vecchiaia incipiente che egli contrasta affidandosi all’eros e alla musica. L’amore verso una giovane allieva e una Trieste cupa, «medioevo di violenze», che cela al suo interno un’altra città, quella delle origini e della famiglia ormai perduta, divengono così le fondamenta su cui Rosso costruisce la sua sinfonia melanconica e dissonante («romanzo musicale» lo definì Attilio Bertolucci nel saggio che accompagnava la ristampa edita da Garzanti nell’89).
Ancora eros, ancora Trieste, nel terzo capitolo della trilogia sul personaggio di Stefano Marcovich, La città di Miriam di Fulvio Tomizza (apparso nel 1972, è stato ora ristampato da Marsilio, pp. 165, euro 12,50). Romanzo psicoanalitico venato da continui conflitti: si oppongono le origini istriane e campestri del protagonista alla città spiccatamente borghese, la sua incontrollabile smania di appagamento sessuale alla fedele e disarmata presenza della moglie Miriam, la realtà e il sogno (al punto da non essere più distinguibili). Come nota bene Marco Franzoso nella prefazione al volume, si tratta di un nomadismo erotico che rivela un nomadismo culturale e identitario, la ricerca di un corpo estraneo in cui affondare. Il porto sicuro in cui sperare di gettare le ancore è Miriam, la donna idealizzata di cui Stefano si innamora leggendone i diari, l’impossibile catarsi. Proprio come Trieste, luogo di transito aperto a genti di ogni sorta, senza che nessuno, sostiene Stefano, riesca a «conquistarla interamente».
L’altro cardine delle scritture triestine, la frontiera, emerge con tutte le sue contraddizioni nel romanzo postumo di Stelio Mattioni, Dolodi (Zandonai 2011, pp. 124, euro 15). Scritto nel 1982 e in linea con le sue migliori opere precedenti, il romanzo risucchia il lettore in un’atmosfera sospesa, in cui tutto pare immobile fuorché un generico confine a separazione tra due Stati di cui non sappiamo nulla, se non che uno dei due ha perso l’ultima guerra. Emilio e Giuliana, i due nuovi proprietari di una casa – un simbolo-chiave nella poetica dell’autore – situata su un misterioso altipiano, non solo non riescono a mandare via l’ex proprietario, lo squattrinato Dolodi, ma subiscono la presenza minacciosa della frontiera, che notte dopo notte si avvicina, come una sorte ineluttabile. Con la maestria e l’originalità che già Calvino gli aveva riconosciuto agli esordi, Mattioni trasforma un’anonima casa in una Fortezza Bastiani incantata e maledetta, avamposto cruciale per analizzare i travagli psicologici dell’uomo che si illude di poter determinare e circoscrivere la propria identità.
Si sposta sui bordi scivolosi della frontiera anche L’antenato sotto il mare (Guanda 2010, pp. 199, euro 15) di Pietro Spirito: non un romanzo né un saggio storico, piuttosto un raffinato reportage che conduce il lettore sui fondali del Golfo di Trieste, costringendolo a confrontarsi con la propria caducità, prima ancora che con le imprevedibili epifanie della Storia. Nelle sue immersioni alla scoperta di relitti affondati nei secoli, Spirito avvicina i nostri sguardi alle rovine, «richiamo a ciò che siamo e saremo». Il sottomarino monoposto Molch, fallito esperimento tecnologico nazista, ci ricorda che ciascuno di noi naviga da solo nell’oscurità, così come lo scheletro del piroscafo Baron Gautsch incarna la metafora del tramonto dell’Impero austro-ungarico. Una memoria sommersa che non dobbiamo avere paura di affrontare, nell’affannoso ma necessario recupero di una storia, o di una Storia, che ci appartenga.
Riti di iniziazione
Di frontiere, di morte, di soprusi e di riscatto parla anche Piazza Oberdan, di Boris Pahor (nuova dimensione, pp. 223, euro 19). Un intensissimo zibaldone storico-letterario in cui confluiscono articoli, appunti, fogli di diario, passaggi di racconti, deposizioni di combattenti sloveni fatti prigionieri dai nazifascisti (tra cui quella estorta a Franc Kavs, l’uomo che nel ’38 avrebbe dovuto attentare alla vita di Mussolini). Partendo da una piazza triestina che porta il nome dell’irredentista – di madre slovena – che rinnegò la lettera k del proprio cognome, convertita in quartier generale della Gestapo, Pahor intreccia la propria vita a quella dei coraggiosi sloveni che hanno lottato contro un regime che li voleva annullare, considerandoli alla stregua di cimici («je suis une de ces punaises», affermò con orgoglio a France Culture), o a uomini come il monsignore friulano Luigi Fogàr, che rifiutò di benedire il sacrario nazionalistico di Oberdank. Un libro necessario, perché svela al pubblico di lingua italiana pagine rimosse di un passato scomodo, rimarcando la rilevanza della letteratura nell’impervio tragitto di affermazione di un popolo.
Il viaggio nelle innumerevoli guide triestine non può che procedere da quello che è diventato in pochi anni un piccolo classico (accanto a un altro long-seller imprescindibile: Jan Morris, Trieste. O del nessun luogo, Il Saggiatore 2003), ovvero Trieste sottosopra di Mauro Covacich (Laterza 2006; nel 2010 è apparsa l’ottava edizione). Covacich ribalta la stereotipata città imperiale e «italianissima» proponendo l’effigie di una «Napoli del Nord», dinamica, edonista, contraddistinta da un «vitalismo moderno un po’ easy going, alla californiana». Lo fa passando in rassegna – accanto a topoi quali la Risiera di San Sabba, le foibe, i caffè storici, la bora – i frammenti di una città in salute e da riscoprire, come i ricreatori, modelli esemplari di laicità, o la riviera barcolana, teatro marino di veri e propri riti di iniziazione. E godereccia è la città illustrata da Veit Heinichen e Ami Scabar in Trieste. La città dei venti (e/o, pp. 148, euro 16). Il sottotitolo più opportuno sarebbe forse la città dei gusti, visto che sono i vini del Carso, gli oli della Val Rosandra, i piatti delle tradizioni locali a dare il la al racconto. Una deliziosa guida-menù insomma, non priva dei bar e dei ristoranti preferiti da Proteo Laurenti, il commissario meridionale trapiantato a Trieste che ha reso celebre la penna dello scrittore tedesco.
Scritta con altri occhi è la Guida sentimentale di Trieste curata da Gabriella Musetti (Arbor Librorum, pp. 298, euro 14), poetessa e saggista che ha coordinato, presso la locale Casa Internazionale delle Donne, un laboratorio mirato a far narrare la città da voci di donne che hanno alle spalle storie di disagio e di violenza. Il risultato è un mosaico tracciato fuori dai luoghi comuni, dove ogni via acquisisce senso perché depositaria di un ricordo vivido e personalissimo, riallacciandosi idealmente alla mappa poetico-sentimentale tratteggiata da Biagio Marin negli anni ’60 in un volumetto edito da Scheiwiller.
La città rivive poi in un filone purtroppo poco studiato in Italia, quello dei graphic novel. È il caso di Diario italiano 1 (Coconino Press 2010, pp. 152, euro 17) scritto e disegnato da David B., strepitoso autore di fumetti d’Oltralpe. Un grand tour surreale quello dell’autore del Grande Male, che parte da una Cittavecchia popolata di gatti, topi e proiezioni oniriche atte a smembrare il concetto di realtà. Romanzo grafico degno di nota è pure La porta di Sion (BD 2010, pp. 108, euro 12) di Walter Chendi, i cui riflettori si accendono sulla città dopo l’annuncio della promulgazione delle leggi razziali fatto da Mussolini in Piazza Unità.
Una delle fotografie più forti di Francesco Penco. Trieste e Fiume in posa (Comunicarte, pp. 176, euro 28), curato da Claudio Ernè con Paolo Possamai, ritrae per l’appunto un Castello di San Giusto reso irriconoscibile dall’accecante scritta «DUX» a carattere cubitali, omaggio alla venuta del dittatore. E in immagini-movimento scorre la città nel documentario Il leone e la leonessa (Comune di Trieste, 2010), firmato da un debuttante alla regia, Riccardo Cepach, focalizzato su Sir Richard Francis Burton, infaticabile viaggiatore, traduttore de Le mille e una notte e del Kama Sutra, che nella sua residenza sul Colle di San Vito ultimò la traduzione dall’arabo del manuale erotico Il giardino profumato, data sciaguratamente alle fiamme poco dopo la sua morte dalla moglie Isabel.
Oltre i miti di cartapesta
Di certo uno sguardo parziale, che si sofferma solo su alcune delle ultime uscite librarie in cui è primattrice Trieste (mentre si redige l’articolo viene dato alle stampe da Bompiani In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso Svevo”, di Giampiero Mughini) e non può pretendere di ricostruire un quadro nitido. Ma è uno sguardo foriero di interrogativi: c’è qualcosa che rende oggi Trieste un soggetto ancora più interessante di quanto sia stato in passato? Ci troviamo dinanzi a una fuga all’indietro o alla consapevolezza di una tradizione differente che indica nuove vie da percorrere? Ci si chiede, in definitiva, se rispolverando con i debiti distinguo le considerazioni fatte da Pietro Pancrazi sul «Corriere della Sera» poco più di settant’anni fa, sia lecito parlare oggi – al di là dei miti di cartapesta – di una letteratura specificamente triestina, con le sue peculiarità, le sue anomalie.

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Culture a confronto al vaglio di una critica militante
Trieste è al centro, costantemente, di un corpus vastissimo di pubblicazioni – e di mostre, come quella appena terminata a Palazzo Gopcevich, dedicata alla figura di Tullio Kezich, o l’esposizione inaugurata da poco al Cccb di Barcellona dal titolo «La Trieste di Magris» – di cui non è possibile dare conto in modo esaustivo. Dovendo operare una scelta, si citano qui le opere recenti di alcune critiche militanti che testimoniano, con l’impegno profuso nella ricognizione dell’attività letteraria triestina, la centralità della donna nello sviluppo civile e culturale cittadino. Un saggio che scandaglia con minuzia il mito artificiale della «Disneyland della memoria personale» è «Trieste: italianità, triestinità e male di frontiera» di Katia Pizzi (Gedit 2007). Importanti per comprendere l’eterogeneità della città sono «L’altra anima di Trieste» (Mladika 2009) di Marija Pirjevec e «Cultura serba a Trieste» (Argo 2009) di Marija Mitrovic; infine non vanno dimenticati, tra gli altri, i contributi incisivi di Cristina Benussi, Ernestina Pellegrini, Sergia Adamo, Gabriella Ziani

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