L’etica di Ingrao, pacifista un po’ guerriero

«Siate gentili con la mia vecchiaia» , risponde Pietro Ingrao (novantasei anni ieri: auguri di cuore) a Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, concludendo la conversazione che Aliberti ha appena pubblicato con il titolo: Indignarsi non basta. È una pacata esortazione a tenere fermo il senso del limite. Ma i vecchi combattenti non sono, politicamente parlando, gentili: mettono, quando pensano che occorra, i piedi nel piatto; e, se vogliono lasciarci un messaggio, pretendono che sia il loro, non quello che gli altri gli attribuiscono.

«Siate gentili con la mia vecchiaia» , risponde Pietro Ingrao (novantasei anni ieri: auguri di cuore) a Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, concludendo la conversazione che Aliberti ha appena pubblicato con il titolo: Indignarsi non basta. È una pacata esortazione a tenere fermo il senso del limite. Ma i vecchi combattenti non sono, politicamente parlando, gentili: mettono, quando pensano che occorra, i piedi nel piatto; e, se vogliono lasciarci un messaggio, pretendono che sia il loro, non quello che gli altri gli attribuiscono. E Ingrao, che pure alla prosa preferisce la poesia, che tuttora individua nella rivendicazione della «fecondità del dubbio» il suo personale «apporto al pensiero e all’agire politico» , e che tiene a dichiarare di non essere mai stato «un uomo della regola» , stavolta alla regola non sfugge. A modo suo, certo, e con il suo particolarissimo linguaggio, i piedi nel piatto li mette. Eccome. Indignez-vous, indignatevi, esorta Stephane Hessel, protagonista della Resistenza francese, novant’anni o giù di lì pure lui, in un libretto che in Francia ha fatto furore e l’editore torinese Add ha appena tradotto in italiano. Ingrao non ne è affatto convinto. L’indignazione è sacrosanta, ci mancherebbe, ma non può diventare un mestiere, o un abito mentale. Anche lui, ventenne, si indignò, il 17 luglio 1936, quando Francisco Franco, varcato lo stretto di Gibilterra, sbarcò in Spagna. Ma da lì, spiega, cominciò il suo percorso politico. Perché, appunto, indignarsi non basta: «Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva. Poi la puoi chiamare movimento o partito o in altro modo» . Lui, Ingrao, che la chiamò partito, o meglio: Partito comunista italiano, sa benissimo che ormai «la domanda di liberazione dai partiti non solo è diffusa, ma… è diventata un potente elemento della stessa azione politica» . Sa pure, però, che «la decadenza della forma partito e il suo pervertirsi hanno agito, restringendone drasticamente i margini, sulla capacità di dialogo e di ascolto, sul confronto tra culture, sulla possibilità di influenza reciproca, sulla trasparenza nei rapporti tra governanti e governati: insomma, sulla formazione dello spirito pubblico» . E soprattutto sa anche che «una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all’affarismo politico» (l’indignazione e la denuncia in servizio permanente effettivo, cioè) per condivisibili che possano essere, non solo non bastano, ma non fanno vedere, e in qualche modo occultano, «le trasformazioni persino violente che hanno subito i luoghi del vivere civile, le fabbriche, gli uffici e le scuole, le metropoli e le loro periferie, i modi della mobilità e della comunicazione» . Indignazione, moralismo politico? Con tutti i suoi novantasei anni, Ingrao (come sostiene più nel dettaglio in un’intervista rilasciata a Bruno Gravagnuolo per l’Unità) si metterebbe da domani al lavoro per costruire un soggetto comune, plurale e unitario insieme, della sinistra, «fatto di posizioni più moderate e più radicali» , ma pure un’intesa con il centro, perché «Bersani, Vendola e gli altri più a sinistra da soli non possono farcela» , a «dividere il blocco sociale dell’avversario e a costruirne uno proprio, vincente» . Sono, a guardar bene, parole antiche: probabilmente è per via della desolazione politica di questi tempi che sembrano nuovi, e controcorrente. Ancor più controcorrente, almeno rispetto al cliché che gli è stato incollato, suonano le affermazioni di Pietro Ingrao sulla pace e sulla guerra. Hessel si dichiara per la non violenza assoluta, il vecchio comunista (seppur lodatore del dubbio metodico) Ingrao, che pure si richiama rigorosamente all’articolo 11 della Costituzione, proprio no. È contro la guerra, certo, ed è anche agghiacciato dal fatto che la guerra sia entrata a far parte della nostra vita quotidiana come qualcosa di normale. Ma, spiega, «non sono mai stato per il pacifismo integrale. Sono stato e resto persuaso che l’azione armata del nemico costringe a rispondere con le armi» , dice a Boccia e a Olivetti. «La non violenza, intesa nel suo significato più diretto, quale netto rifiuto di ricorrere alle armi, non è presente nella mia esperienza politica, e non l’ho mai teorizzata» . Non è solo un tributo di onestà alla cultura politica e alla tradizione da cui viene. Sull’Unità, con l’intervistatore che vuol sapere della Libia, va molto oltre: «Mi chiedi di Gheddafi? Posso dirti: è un mascalzone. E perciò un modo per far fronte a uno come lui si doveva pur trovare, con tutti i dubbi sui rischi imperiali euroccidentali che un intervento del genere può provocare» in quell’area. Parafrasando Nanni Moretti: se si trattava di «dire qualcosa di sinistra» a nipoti e pronipoti, il vecchio Pietro ha trovato il modo di farlo.

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