«Nanmin», i reietti in fuga da Fukushima

TOKYO – Le hanno dedicato perfino una mielosa canzone, che le radio locali trasmettono in continuazione. Fukushima è ormai un pensiero fisso per tutti i giapponesi. Una preoccupazione costante che spinge chi può a migrare.

TOKYO – Le hanno dedicato perfino una mielosa canzone, che le radio locali trasmettono in continuazione. Fukushima è ormai un pensiero fisso per tutti i giapponesi. Una preoccupazione costante che spinge chi può a migrare.

È una sorta di transumanza, che ha il suo epicentro nella centrale in ebollizione: chi viveva entro i venti chilometri dagli impianti è stato già evacuato, chi abitava nella fascia immediatamente successiva lo sta facendo in questi giorni, ufficialmente a titolo volontario, dopo aver vissuto finora, su indicazione delle autorità, sotto un irraggiamento continuo. Molti di loro stavano già nei centri di accoglienza, dal momento che l’onda che ha distrutto la centrale ha fagocitato anche chilometri e chilometri quadrati di villaggi. Lì i morti non sono stati neppure estratti dalle macerie: non è una priorità, evidentemente, e avvicinarsi in questo momento è troppo pericoloso. 
I nanmin, i profughi, di Fukushima si sentono abbandonati. Li incontro nel centro sportivo di Yamagata. Lasciare le proprie case, per chissà quanto e per chissà dove non è stato facile. E neppure troppo facilitato, denunciano. Al di là delle auto della polizia che giravano con gli altoparlanti intimandogli di chiudere le finestre, nei loro villaggi di origine non hanno ricevuto grande aiuto né conforto. E neppure un viaggio pagato, una destinazione certa, né un pieno di benzina assicurato, che in questo momento di razionamento può fare la differenza tra il restare sotto il tiro di un nemico invisibile o andarsene. Chi poteva, comunque, è fuggito. Un uomo racconta fiero che la prima cosa che ha pensato, dopo l’incidente, è stata di rifornirsi di carburante. È grazie a questo che si trova qui. 
Nei campi per i rifugiati della zona di rispetto, quella tra i venti e i quaranta chilometri dalla centrale, la situazione è al limite. Nessuno ci vuole andare, nemmeno i soccorritori. Gli approvvigionamenti sono scarsi, viveri e gasolio stanno finendo. E qui non c’è la fila per iscriversi nelle liste dei volontari. 
La palestra del centro sportivo di Yamagata è stata trasformata in un quartiere in miniatura. C’è profumo di incenso e lenzuola nuove. Le dieci famiglie che vi si sono stabilite hanno costruito un microcosmo di tatami e stufette. Ognuna ha a disposizione un quadrato di quattro metri di lato, indipendentemente dal numero dei membri del nucleo familiare. Con addosso le mascherine d’ordinanza cercano ostinatamente di condurre una vita normale. 
I Fukushima-nanmin, però, si sentono già dei diversi, o perlomeno si sentono trattati come tali. Vengono raccolti tutti insieme, loro soli, nei centri per sfollati, come quello di Yamagata. Sono guardati a vista, per parlare con loro è necessario un permesso speciale della prefettura. Raccontano che, in alcuni campi della provincia di Fukushima, chi viene dall’area della centrale non può entrare senza un certificato medico che ne attesti la negatività alle radiazioni. Ragioni di sicurezza, spiegano con naturalezza. Ma non tutti possiedono il salvacondotto sanitario: i medici non hanno fatto in tempo a completare le analisi su tutti i residenti, prima che questi si sparpagliassero per la regione. E così ad alcuni viene negato il diritto di avere un tetto sulla testa, almeno in alcuni rifugi dalle regole particolarmente severe. La loro paura, adesso, è quella di diventare i nuovi Hibaku-sha, i sopravvissuti alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, che hanno portato addosso finché hanno vissuto lo stigma della contaminazione.

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