“Indignarsi non basta”, Il dubbio e la passione di Ingrao

Ingrao si racconta in un libro-intervista
Esce domani per Aliberti il volume “Indignarsi non basta”, che raccoglie una serie di conversazioni intrattenute con Pietro Ingrao da Maria Luisa Boccia e Adriano Olivetti a partire dal dicembre 2009. Ne pubblichiamo un’anticipazione.

Ingrao si racconta in un libro-intervista
Esce domani per Aliberti il volume “Indignarsi non basta”, che raccoglie una serie di conversazioni intrattenute con Pietro Ingrao da Maria Luisa Boccia e Adriano Olivetti a partire dal dicembre 2009. Ne pubblichiamo un’anticipazione.

La politica nella mia vita è una passione tenace. Ancora oggi, in età così avanzata, non è spenta. Esito a spiegarla con una motivazione morale. Non la vivo come un dover essere. Anzi. Sono scosso da passioni vitali, direi dalla corporeità della vita. Salvo, della mia vicenda, l’inizio del percorso, il mio resistere che poi divenne la Resistenza. Su tutto il resto c’è molto da discutere, da ripensare. Non sono stato mai uomo della regola. Mi piacciono troppe e disparate cose della vita e, con gli anni, questa disposizione si è acuita. Perciò siate gentili con la mia vecchiaia.
(Alberto Olivetti) Quando dici che la passione politica non è stata motivata da una scelta morale cosa intendi?
Mi pesa la sofferenza altrui. Non è un sentimento altruistico. Sono io che sto male, che vivo come insopportabili le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati. La politica è stata innanzitutto un agire per me, non per gli altri. Certo, come ho avuto modo di scrivere, gli altri c’entrano. Senza gli altri io non esisto (neppure sarei nato). E non penso di poter alleviare, se non insieme ad altri, quella sorta di nausea psichica che mi pesa addosso. Quel moto interiore si è espresso in un’adesione al movimento comunista.
(Maria Luisa Boccia) Ti ha mosso alla politica una sofferenza: passione è patire. Da politico, puoi dire che la politica è la tua professione?
A me che sono stato tutta la vita dentro la politica – le norme, le istituzioni, lo Stato – non è affatto estraneo il distacco. Mi è accaduto molte volte di chiedermi cosa avevo a spartire con tutto questo. A cominciare da un’acuta percezione di quanto sia mutilante, nella sua astrazione, la norma. E ogni ordine, ogni forma, ogni misura riduttivi rispetto alla vita. Sono stati momenti di forza e di libertà quelli in cui mi sono detto: “Io non sono di questa città” – si chiamasse partito, Parlamento, Stato – “non è la mia questa legge”. E sono ripartito, nel mio fare politica, praticando il dubbio. Ben presto, la politica è diventata attività quotidiana. Diversamente da come spesso sono descritto, non sono un utopista visionario, affezionato all’idea comunista. La politica mi ha interessato nel suo farsi. Mi accade, ancora oggi, di prestare a attenzione ai suoi passaggi tattici. Pure, non ho mai creduto alla politica come tecnica e poteri separati. Tanto meno al carattere risolutore della decisione e della forza. Per me politica è: io e altri insieme, per influire, fosse pure per un grammo, sulle vicende umane. Fuori di questo agire collettivo non saprei fare politica. Francamente non credo che me ne sarei interessato. In realtà nella politica ci sono stato intero. E però non sono mai stato solo quello. Sono dunque scisso, tra l’essere dentro la politica in tutti i suoi aspetti e il consapevole rifiuto di accettarne la misura, la logica.
(Maria Luisa Boccia) In occasione della festa per i tuoi novanta anni, il 30 marzo del 2005, all’Auditorium di Roma, dicesti: “Ho imparato in questo secolo l’indicibile dell’umano, di ognuno di noi e della relazione con l’altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo. La mia paura è che mi venga tolto non tanto il pane e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell’umano”. Poi hai rivolto un appello a tutti noi che eravamo presenti: “Vi prego, non permettete che la domanda sull’essere umano venga cancellata”.
È la radice della mia passione, tuttora tenace. Quella domanda ha alimentato la mia pratica del dubbio e, allo stesso tempo, mi ha spinto a “impicciarmi” quotidianamente delle vicende politiche. Se talvolta ho potuto appagare il desiderio di trovare la parola, o l’atto, che quella passione richiedevano, sono convinto di doverlo alla fecondità del dubbio. In questo riconosco oggi il mio apporto al pensiero e all’agire politico. Dubitare non è stato per me segno di debolezza, di indecisione. Al contrario è stata un’attitudine costruttiva.
(Alberto Olivetti) È stato da poco tradotto in italiano dall’editore torinese Add “Indignez-vous!”, un opuscolo scritto da Stéphane Hessel, uno dei protagonisti della Resistenza francese. È un appello, divenuto un evento editoriale, che si rivolge ai giovani. Non è usuale che un uomo autorevole, di novantatré anni, si rivolga ai giovani e trovi così largo ascolto.
Senza dubbio Hessel interpreta un bisogno di agire in prima persona assai avvertito e che non trova modi efficaci per esprimersi. Anche in Italia la politica, per come si rappresenta, non comunica con questa esigenza. Risulta lontana, c’è un vuoto di rappresentanza. E sono lontani dalla vita, soprattutto da quella dei giovani, i partiti, i sindacati, i loro linguaggi. Hessel ribadisce un concetto fondamentale. La politica, dice, è questione di ognuno di noi. Ognuno si deve porre la domanda “che faccio io?”, rispetto a un mondo segnato da guerre, ingiustizie, violenze. Indignarsi è questo.
(Alberto Olivetti) Anche tu, a vent’anni, ti sei indignato. Non comincia allora e così il tuo impegno politico?
Ricordo il fatto che ha deciso del tipo della mia indignazione. Francisco Franco attraversa lo stretto di Gibilterra, invade la Spagna. Quel giorno mi sono indignato. Mi sono interrogato su quello che io stavo facendo e su quello che accadeva nel mondo. Che dovevo fare io e con me i miei compagni di studio, e gli amici intorno a Rudolf Arnheim, con cui condividevo l’amore per il cinema “come arte”? Il 17 luglio 1936, il giorno dello sbarco di Franco, è quello in cui ho detto no e ho intrapreso, con altri, un altro percorso. Da lì sono cominciate la mia esperienza e la riflessione sul soggetto politico collettivo. Nella primavera del 1940, l’impressione era che la Germania avesse in pugno il mondo e che, varcata la Manica, la guerra-lampo sarebbe finita con la vittoria di Hitler. Facevo già parte di un gruppo clandestino, era piccola cosa, rischiava di diventare nulla. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo. Ma l’immagine era quella di un mondo che andava contro tutto quello che avevo dentro. Ricordo di essermi posto, con il lutto nel cuore, la domanda secca “che faccio io?”.

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