Papini e il rapporto con la Blefari Melazzi che rivendicò il delitto Biagi «Caro Massimo, immagino che avrai un milione di dubbi, ti starai facendo domande sulle mie stranezze e paranoie, ma ora non ti posso spiegare. Perdonami» . La lettera è dell’ottobre 2003. Poi Diana Blefari Melazzi sparisce. La sua latitanza dura poco. Viene arrestata tre giorni prima di Natale in un residence del litorale romano. Ha partecipato all’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, fa parte delle Nuove Brigate Rosse fondate da Nadia Lioce, forse ne custodisce i segreti, come il luogo dove sarebbero nascoste le armi che nel 2000 uccisero anche il consulente del ministero del Lavoro Massimo D’Antona.
Papini e il rapporto con la Blefari Melazzi che rivendicò il delitto Biagi «Caro Massimo, immagino che avrai un milione di dubbi, ti starai facendo domande sulle mie stranezze e paranoie, ma ora non ti posso spiegare. Perdonami» . La lettera è dell’ottobre 2003. Poi Diana Blefari Melazzi sparisce. La sua latitanza dura poco. Viene arrestata tre giorni prima di Natale in un residence del litorale romano. Ha partecipato all’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, fa parte delle Nuove Brigate Rosse fondate da Nadia Lioce, forse ne custodisce i segreti, come il luogo dove sarebbero nascoste le armi che nel 2000 uccisero anche il consulente del ministero del Lavoro Massimo D’Antona.
L’ultima lettera risale a sei anni dopo, 26 settembre 2009, spedita dal carcere di Rebibbia. Ma il destinatario non la può leggere. Massimo Papini, 35 anni, romano, attrezzista cinematografico, è in carcere. La Polizia gli mette le manette in provincia di Salerno, mentre si trova sul set di Benvenuti al Sud, il film con Claudio Bisio, recente campione di incassi. Da quel giorno ha trascorso 18 mesi in cella, undici dei quali in isolamento. Mercoledì scorso è stato assolto dall’accusa di partecipazione a banda eversiva. Il fatto non sussiste. «Chi è il mio assistito? Un’Antigone dei nostri tempi. Un uomo che paga a caro prezzo la generosità nei confronti di una persona molto malata, che stava scontando la pena per aver commesso un delitto orrendo ma era sua amica, e aveva disperato bisogno di aiuto» . L’avvocato Francesco Romeo, che insieme a Caterina Calia ha difeso Papini, cita il personaggio di Sofocle con qualche buona ragione. La vicenda umana di Diana Blefari Melazzi e Massimo Papini, fidanzati dal 1996 al 1999, amici da allora, somiglia a una tragedia greca. Il primo ottobre 2009 viene arrestato Papini, l’unica persona autorizzata a fare visita alla brigatista in carcere, per cercare di lenire il male che le sta scavando dentro. Il 20 ottobre il tribunale della libertà gli nega la scarcerazione. Il giorno seguente Blefari Melazzi viene interrogata, ha fatto balenare più volte il desiderio di dissociarsi dalle Nuove Br, sta pensando di collaborare. Scagiona l’amico, dice che non c’entra nulla con il terrorismo. Poi si chiude nel silenzio. Il 27 ottobre viene confermata la sua condanna all’ergastolo. Il 31 ottobre si impicca in cella. Aveva 40 anni. Veniva da una famiglia della buona borghesia dei Parioli, la madre era baronessa, morta anch’essa suicida nel 2001. Il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, aveva denunciato come le fosse stato inflitto il 41 bis «senza tenere in considerazione la sua malattia: schizofrenica e inabile psichicamente» . Papini era l’unica persona riuscita a fare breccia nel muro alzato da Blefari Melazzi nei confronti del mondo. L’unico punto di riferimento. La sua amicizia con la brigatista è sempre stata l’esile filo che lo collegava a quelle vicende. Dopo l’arresto nasce un comitato. Amici e gente di cinema, convinti della sua innocenza. Papini ha lavorato sui set dei più grandi registi italiani, da Bernardo Bertolucci a Paolo Sorrentino, è stato caporeparto costruzioni nella serie televisiva di Romanzo criminale. «Un’attività che assorbiva la sua esistenza e lo teneva così lontano da Roma da rendere inverosimili le accuse» , ha dichiarato la scenografa Paola Comencini. Diana Blefari Melazzi era nota anche alla sua attuale fidanzata, che più volte ha mandato vestiti e preparato pietanze per la detenuta. Il capo di imputazione parla di un «rapporto dialettico» con le Nuove Br cominciato nel 1996, con Blefari Melazzi come unico referente. In quell’anno furono entrambi fermati a un presidio contro lo sgombero di un centro sociale dove campeggiava uno striscione con una stella rossa, non cerchiata. Il punto forte dell’accusa era il documento che definiva le regole di comportamento dei militanti delle Nuove Br. Comunicazioni con schede prepagate da usare esclusivamente per i contatti con gli altri brigatisti, fatte in luoghi distanti dalla propria residenza. L’imputato accetta questa procedura imposta dall’amica, pur ritenendola «paranoica» . La richiesta gli viene fatta da Diana dopo il suicidio della madre, lui crede che si tratti del segno di un malessere già evidente. Dice che ubbidirà, ma in aula è stato dimostrato che spesso le sua telefonate partivano da casa o dalla sede di lavoro. «Il processo— dice Romeo— ha toccato vertici di assurdità che potrebbero essere descritti con ironia, se non fossero legati a un dramma» . Gli avvocati di Papini aspettano che la sentenza di assoluzione diventi definitiva. Poi chiederanno i danni allo Stato per ingiusta detenzione.
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