Libia: niente rimpianti, ma niente ipocrisie

Quando cadde il Muro di Berlino, anche chi pensava che a farlo crollare non fosse la voglia di democrazia ma la globalizzazione del turbocapitalismo, non per questo rimpiangeva Stalin, Breznev o Honecker. Così non rimpiangeremo Gheddafi, pur consapevoli, come scrive Valentino che «al peggio non c’è mai fine», e potremmo ritrovarci domani con un fantoccio partorito dalle bombe di questa nuova guerra umanitaria.

Quando cadde il Muro di Berlino, anche chi pensava che a farlo crollare non fosse la voglia di democrazia ma la globalizzazione del turbocapitalismo, non per questo rimpiangeva Stalin, Breznev o Honecker. Così non rimpiangeremo Gheddafi, pur consapevoli, come scrive Valentino che «al peggio non c’è mai fine», e potremmo ritrovarci domani con un fantoccio partorito dalle bombe di questa nuova guerra umanitaria.
Senza rimpianti ma anche senza le ipocrisie che minano il campo della discussione e del linguaggio, dell’analisi e dell’informazione nella guerra ideologica e mediatica che accompagna la battaglia sul paese del petrolio africano. Ne sentiamo l’eco quando ascoltiamo le parole del presidente della Repubblica: «Non siamo entrati in guerra, siamo impegnati in un’azione autorizzata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite». Ne avvertiamo l’odore quando lo sgangherato governo italiano per bocca del ministro della difesa avverte che non vuole essere un affittacamere ma un protagonista della scena. Quando il presidente del consiglio, lo stesso che non voleva disturbare Gheddafi, oggi sale le scale dell’Eliseo per unirsi ai “volenterosi”. Del resto basta accendere la televisione e chiunque capisce che siamo in guerra e che l’Italia, come conferma sui nostri schermi il falco Edward Luttwack, questa volta sta facendo il proprio dovere con le basi e gli aerei.
Proprio noi, quelli dei 100 mila morti del colonialismo fascista, sorvoliamo i cieli della Libia con cacciabombardieri Tornado. Avremmo potuto (e dovuto), da ex potenza coloniale, seguire l’esempio della Germania e astenerci dall’intervento militare, invece sgomitiamo per essere in prima fila insieme a francesi, britannici e americani. E per proteggere i cittadini libici insorti contro il dittatore, rovesciamo su Tripoli una fitta pioggia di uranio umanitario. Nonostante fosse evidente che per far rispettare la no-fly-zone (senza averla concordata prima, senza una missione diplomatica dell’Onu, senza una reale pressione per il cessate il fuoco) si sarebbe ricorsi ai bombardamenti. E pazienza se dovremo spendere parole di cordoglio sulle inevitabili vittime collaterali.
E’ così evidente la sproporzione tra parole e fatti che è la Lega Araba, che pure aveva sottoscritto la risoluzione dell’Onu, a fare una mezza marcia indietro («quello che vogliamo è proteggere i civili, non bombardarne altri») mettendo in discussione l’interpretazione data all’articolo 41 della Carta che autorizza le missioni militari, non qualsiasi missione militare. Così eclatante la furia dei guerrafondai Sarkozy e Cameron, così confusa la linea di comando che ora persino l’ineffabile ministro degli esteri Frattini (lo stesso che incensava Mubarak e Ben Alì) minaccia di riprendere il controllo delle nostre basi, innescando una battaglia sulla leadership della Nato. La babele coinvolge anche politici e militari statunitensi. Per i generali l’obiettivo non è Gheddafi, per Clinton è il raìs, Obama si mette nel mezzo: Gheddafi se ne deve andare ma le operazioni militari sono a protezione dei civili.
Se è questa la difesa dei diritti umani, se la primavera del Maghreb e del Medio Oriente porta al la guerra, allora bisogna fare di più, regalando bombardamenti umanitari anche allo Yemen e al Bahrein, trasformando Odissey dawn nell’anteprima del nuovo ordine.

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