Di che cosa parliamo quando parliamo di sinistra

Mutazioni del vocabolario politico
  Dai processi collettivi di liberazione all’inflazionata parola-chiave libertà , un percorso di lettura per decostruire vecchie e nuove «narrazioni»: Qualcosa di sinistra di Franco Cazzola e Il partito personale di Mauro Calise

Mutazioni del vocabolario politico
  Dai processi collettivi di liberazione all’inflazionata parola-chiave libertà , un percorso di lettura per decostruire vecchie e nuove «narrazioni»: Qualcosa di sinistra di Franco Cazzola e Il partito personale di Mauro Calise

È possibile un’uscita da sinistra dalla crisi italiana? Per quanto l’atmosfera da basso impero in cui siamo precipitati in queste settimane abbia ringalluzzito non pochi intellettuali e militanti, convinti che siamo ormai al redde rationem e che basti una spallata – giudiziaria, mediatica o di piazza che sia – per sgombrare il terreno politico da colui che viene additato come caput et finis dei nostri guai, è forse opportuno avanzare qualche dubbio. Cominciando dal principio: cioè da cosa significhi concretamente «sinistra» nel tempo presente, e da chi possa conseguentemente essere definito «di sinistra».
L’imperativo dei prezzi stabili
Ci sono effettivamente molti modi per definire la «sinistra» e altrettanti criteri per differenziarla dalla «destra». Ma ce n’è uno solo che non si presta a equivoci, e – come spiega Franco Cazzola nel suo breve quanto intelligente Qualcosa di sinistra (il Mulino) – concerne le scelte relative all’elaborazione del bilancio statale (e del bilancio complessivo del comparto pubblico). È in relazione a questo criterio che si manifestano le scelte in ordine al rapporto tra stato e mercato e si evidenzia come questioni apparentemente «tecniche» (come l’ammontare del deficit e/o del debito, la misura della pressione fiscale diretta e indiretta in rapporto al Pil e l’efficacia redistributiva della spesa pubblica) si rivelino in realtà cariche di significati politici.
Ora, tenendo fermo lo sguardo sulle scelte allocative dei pubblici poteri, emerge lampante un dato: ossia che – per dirla con Cazzola – «fino alla metà degli anni Settanta, la sinistra faceva la sinistra e la destra faceva quasi la sinistra», mentre «con la fine degli anni Settanta, e ancor più dopo il crollo del “socialismo reale”, la sinistra si è messa a fare la destra e la destra ha cominciato a fare la destra».
A seguito delle crisi petrolifere del 1973 e del 1979, che enfatizzarono le conseguenze economiche di quella che potremmo approssimativamente definire come «la guerra civile mondiale» degli anni Settanta, una messe di rapporti e studi come quello della Commissione trilaterale sulle «crisi da sovraccarico» delle democrazie e/o seriosi volumi sulla «crisi fiscale dello stato» (perfino di sedicenti «marxisti»!) hanno in effetti ristrutturato profondamente le preferenze degli attori politici collettivi, sia progressisti che conservatori, e obiettivi come la piena occupazione e la redistribuzione della ricchezza hanno ceduto progressivamente il passo agli imperativi della stabilità dei prezzi e dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
E così, mentre negli anni Sessanta Seymour Lipset poteva scrivere di una «fase post-politica» in cui «la distanza relativamente piccola tra la sinistra e la destra democratiche» rifletteva il fatto che, con l’accettazione da parte di entrambe dell’orizzonte dello stato sociale, i lavoratori avevano vinto «la loro battaglia per la piena cittadinanza», il dibattito odierno è tornato a considerare superata la dicotomia, ma dal lato opposto: la progressiva esautorazione della mano pubblica dal controllo delle politiche economiche e l’erosione dei tradizionali insediamenti collettivi (in primis, la fabbrica fordista) hanno infatti indotto l’intellighentsia occidentale a sostenere che lo stato sociale aveva esaurito la sua funzione storica, e che la piena occupazione, la riduzione delle disuguaglianze e la tutela del lavoro andavano perseguite garantendo «pari opportunità di partenza» e lasciando per il resto ai singoli la «libertà di scegliere» il proprio percorso individuale.
Diffusi «miracoli economici»
La conseguenza immediata è stata una ristrutturazione generale del vocabolario politico: alla piena occupazione è stata sostituita l’employability (letteralmente, «occupabilità), alla crescita basata sull’espansione dell’industria quella fondata su finanza e servizi e alla redistribuzione della ricchezza sociale si è preferita la responsabilizzazione sociale dei singoli, cui è stato chiesto maggior dinamismo in cambio della promessa di maggiori opportunità future. L’obiettivo della tutela collettiva dei diritti sociali ha ceduto così il passo alla promozione delle «libertà individuali»: e «libertà» è in effetti diventata la parola chiave del nostro tempo, di cui immancabilmente ci si fregia tanto a destra quanto a sinistra.
«Libertà», e non più – come usava presso la sinistra comunista – «liberazione»: perché quest’ultima alludeva a un processo in cui gli individui avrebbero imparato lentamente a sottomettersi collettivamente le condizioni della propria riproduzione, riducendo mano a mano il tempo di lavoro all’uopo necessario, mentre la «libertà» si addice a un individuo che si vuole tale per natura e che troverebbe in se stesso tutto ciò di cui abbisogna per godere – s’intende, se solo gli si togliessero tutti i «lacci e lacciuoli» che di fatto glielo impediscono.
Non possiamo qui dar conto dei motivi per cui una simile illuministica visione si è imposta su (quasi) tutta la generazione del baby-boom, che fu protagonista delle ribellioni degli anni ’70: ci limitiamo ad osservare che, probabilmente, dovette avere un peso decisivo il fatto di affacciarsi al mondo in un momento in cui le leve collettive della produzione e della riproduzione si erano a tal punto perfezionate da rendere possibili diffusi «miracoli economici». In grazia della finzione giuridica dei diritti, le giovani generazioni di allora non percepirono più il nesso fra produzione e consumo e s’immaginarono titolari di un «diritto naturale all’abbondanza»: un’abbondanza, beninteso, non prodotta, strappata e conquistata al termine di uno sforzo storico-sociale, ma – come osservò criticamente Fernando Vianello già nei primi anni ’80 – quasi dispensata da parte di un’istanza mitologica e benefica (il progresso, la tecnica, la crescita), di cui sarebbero state legittime ed uniche eredi.
Rinnovamento mancato
È proprio questa atmosfera culturale ad aver mediato la transizione verso un’idea altrettanto «personale» del soggetto collettivo che era stato protagonista indiscusso della stagione precedente, vale a dire il partito politico.
Veri e propri «capolavori» dell’arte politica novecentesca, i partiti hanno infatti visto indebolirsi la propria capacità di essere vettori delle domande sociali di pari passo con l’indebolirsi della macchina statale. Lo notò tempestivamente dieci anni fa Mauro Calise, in un prezioso libretto da poco riapparso in libreria (Il partito personale, Laterza): perfino la domanda di «rinnovamento dal basso» espressa nell’invocazione delle «primarie» ha conseguito l’effetto opposto, perché scomparsi i partiti di massa, sui quali gravavano le spese delle campagne elettorali, queste ultime sono rimaste a carico dei candidati, inibendo così la partecipazione a quanti non hanno possibilità di accedere ai fondi ingentissimi che esse richiedono.
Il pendolo del consenso
Si spiega così l’emersione dei «monarchi repubblicani»: «leader senza un corpo politico», scrive Calise, non più chiamati a identificarsi con una macchina di partito o di stato che orienti la loro azione e la proietti oltre il loro tempo di vita, ma dotati piuttosto come unico corpo del loro corpo. E che spingono le democrazie contemporanee «sull’orlo di un abisso di cui sono ancora ampiamente inconsapevoli: la perdita del corpo politico come luogo impersonale dell’identità collettiva e dell’autorità legittima» e «la restaurazione di un cortocircuito tra il potere del capo e il suo destino fisico».
Se è certo che in questo quadro va collocata la vicenda tutta italiana del partito personale creato a sua immagine e somiglianza da Silvio Berlusconi, bisogna convenire con Calise che «la sindrome del berlusconismo ha catturato la fantasia dei suoi oppositori»: si chiamino Fini, Casini o Di Pietro, tutti manifestano analoghe tendenze personalistiche. Specularmente, l’assenza di un vero leader è ciò che viene rimproverato al Partito democratico: che infatti è un partito nient’affatto unitario, essendo frutto della giustapposizione di tante correnti l’una contro l’altra armate (un po’ com’era la vecchia Dc, senza il collante dell’esercizio del potere).
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: c’è ancora una «sinistra» nel nostro Paese? O il pendolo del consenso è destinato ormai a oscillare fra due destre, una tecnocratica e liberale e l’altra populista e fascistoide, come predisse quindici anni fa Marco Revelli?
Scontata la risposta sul Pd (o meglio, sulla sua classe dirigente), il pensiero corre all’ultima formazione di un certo peso elettorale che continua a dichiararsi «di sinistra», vale a dire «Sinistra Ecologia Libertà» di Nichi Vendola. E subito sorgono i dubbi: non solo per quel persistente quanto ambiguo riferimento alla «libertà», ma soprattutto perché è indiscutibile che il consenso che essa può vantare è anzitutto (se non completamente) un consenso fiduciario al suo leader, che partecipa a pieno titolo di quella trasformazione del rapporto con il suo popolo che ha indotto Calise a parlare di bioleadership. Non diversamente dai suoi antagonisti, Vendola riesuma archetipi che vengono esasperati dalla smisurata potenza di fuoco dei media: tra notiziari e talk show, blog e twitter, anche lui è diventato ubiquo e anche lui costretto ad autoridursi al fascino primordiale che emana dalla sua fisicità e immediatezza. Fino a dare il suo nome alla creatura collettiva che gli è germogliata intorno, «le fabbriche di nichi».
Obiettivi e orizzonti di senso
Pure, non è forse detta l’ultima parola. Senza scomodare la riflessione gramsciana (e in specie la distinzione fra «cesarismo progressivo» e «regressivo»), bisogna prendere atto che, nell’era dell’esplosione narcisistica dell’Io e del trionfo della politica-spettacolo, non c’è modo di costruire alcuna «nuova narrazione» che possa prescindere dalle forme che ad essa sono consustanziali: sarebbe come andare con la cavalleria allo scontro coi carri armati. Tutto sta nel capire quale narrazione: quale orizzonte di senso, quali obiettivi, quali mezzi. Soprattutto, come dicevamo all’inizio, quali scelte relative al bilancio pubblico. Vedremo.

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SCAFFALE
I due corpi del leader e le due destre
(lu.c.)
«Qualcosa di sinistra. Miti e realtà delle sinistre al governo», di Franco Cazzola, uscito negli ultimi mesi del 2010 dal Mulino, è un agile libretto, che si differenzia alquanto dalla maggior parte delle pubblicazioni nelle quali si cerca di affrontare il tema della «ragione sociale» della sinistra all’alba del terzo millennio: non soltanto per la chiarezza (a tratti addirittura didascalica) dell’esposizione, ma soprattutto per la concretezza delle argomentazioni, sempre supportate da puntuali riferimenti quantitativi e bibliografici. (Franco Cazzola, «Qualcosa di sinistra. Miti e realtà delle sinistre al governo», il Mulino, pp. 143, euro 12). La prima edizione del non meno agile – e altrettanto prezioso – libretto di Mauro Calise, «Il partito personale», apparve nel 2000, ed è stata appena ripubblicata con una importante aggiunta che figura anche come sottotitolo: Mauro Calise, «Il partito personale. I due corpi del leader» (Laterza, pp. 166, euro 12).
All’ipotesi delle «due destre», che chi scrive ha sempre trovato estremamente persuasiva, Marco Revelli dedicò il volume omonimo apparso quindici anni fa, nel 1996, per Bollati Boringhieri: Marco Revelli, «Le due destre», pp. 255, euro 12,39.
Infine, a tutti quelli che chi vogliano accostarsi letterariamente al «fenomeno Vendola», segnaliamo un piccolo libro collettivo di cui Vendola ha scritto solo la prefazione: Nichi Vendola e La fabbrica di nichi, «C’è un’Italia migliore. Dieci passi per avvicinarci all’Italia che meritiamo» (Fandango, pp. 191, euro 10). Si parla di lavoro, politiche pubbliche, fisco, città, scuola e università, giustizia, immigrazione, modelli produttivi e di sviluppo. Insomma, ci si sporca un po’ le mani. Con qualche ingenuità, forse, ma con molto più buon senso che in molti scaffali di libri politically correct.

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