Immagini a confronto per restituire la Shoah

SAGGI Dal cinema agli spazi pubblici, un’analisi di Minuz

SAGGI Dal cinema agli spazi pubblici, un’analisi di Minuz

Alcuni eventi non contribuiscono soltanto a fare la storia, ma anche il modo attraverso il quale ce la rappresentiamo. Con la Shoah è l’idea stessa di rappresentazione ad essere messa in discussione. E, come sappiamo dal fin troppo citato interdetto formulato da Adorno secondo il quale non si può fare arte dopo Auschwitz, il genocidio degli ebrei è stato ed è da considerarsi per alcuni e molto influenti personaggi della cultura addirittura inimmaginabile e indicibile. L’irrappresentabilità dello sterminio degli ebrei, tuttavia, non è un paradigma elaborato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e non ha caratterizzato in maniera uguale tutti i paesi europei e gli Stati Uniti. L’idea che lo sterminio non possa essere veramente rappresentato e dunque compreso si è affermata nel corso del tempo, in un certo luogo più che altrove e anche in concomitanza con la ricezione e la applicazione di teorie estetiche elaborate indipendentemente da quell’evento storico. Le teorie alle quali si fa riferimento sono quelle che accompagnano le pratiche artistiche del modernismo che ha privilegiato il come sul cosa rappresentare, fino ad arrivare nei casi più estremi – avanguardie e heigh modernism – a un’arte non comunicativa nella quale l’espressione e l’evocazione si impadroniscono del contenuto fino a renderlo irriconosciblile o fantasmatico.
Come ricostruisce il fondamentale libro di uno dei migliori studiosi di cinema in Italia, Andrea Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, l’interdetto visivo alla rappresentazione dello sterminio degli ebrei si afferma progressivamente negli anni sessanta (ben dopo, dunque, l’avvio della produzione di documentazioni storiche, opere letterarie e cinematografiche) per stabilizzarsi successivamente e trovare un epicentro in Francia. Al contrario, negli Stati Uniti prende piede una cultura visiva della Shoah che segue una strada opposta: non solo a favore della rappresentazione, ma addirittura della sua divulgazione. Ne è esempio la serie televisiva Holocaust trasmessa dalla Nbc alla fine degli anni settanta e che negli anni seguenti sarebbe stata trasmessa anche in Germania dove per molto tempo costituì la più rilevante fonte di rappresentazione popolare dello sterminio ebraico.
Uno dei pregi del libro di Minuz è quello di individuare non solo chiaramente i passaggi che hanno determinato il percorso storico del rapporto fra cultura visiva e Shoah e le differenze fra Europa e Stati Uniti riguardo all’argomento, ma anche e soprattutto come questi due modi di recepire e restituire quell’evento storico si sono influenzati escludendosi e incontrandosi nello spazio pubblico e, soprattutto, il libro descrive la traduzione di tutto ciò nell’architettura. L’analisi condotta sulle strutture formali e narrative dei monumenti e dei musei della Shoah fra Europa e Stati Uniti (nel libro di Minuz c’è anche un’appendice sul progetto del museo della Shoah di Roma), anche in ragione della specificità del linguaggio architettonico che obbliga in molti casi a rendere più palesi scelte formali e contenuti che nel cinema, nella televisione e nella scrittura rimangono più impliciti, ha contribuito a determinare meglio divergenze e convergenze dei due modelli visuali, quello americano e quello europeo, della Shoah e a dare la possibilità all’autore di formulare un giudizio politico culturale complessivo. Assumendosi dunque il merito della rischiosa responsabilità intellettuale di esprimere un giudizio sui due modi europeo-francese e americano della rappresentazione dello sterminio. La predilezione dell’autore va al modello americano rappresentato dal film di Spielberg perché «Shindler’s List non segna soltanto l’innesto definitivo dell’Olocausto nella cultura americana, ma anche la ricollocazione in un orizzonte transnazionale della produzione memoriale della Shoah» rispetto alla quale la strategia europeo-francese «appare come un progetto di retroguardia».
Uno dei momenti più significativi della ricostruzione storica di Minuz si realizza nel rilevare l’importanza della trasmissione televisiva del processo Eichman nel 1960-1961 in Israele. «Il primo processo ripreso in diretta dalle televisioni di tutto il mondo» che determina «una nuova sensibilità collettiva nei confronti della testimonianza». Nuova sensibilità che si traduce negli Stati Uniti in incentivo per la fiction narrativa e il film melodrammatico e in Europa in opere testimoniali evocative e anti-narrative. Il risultato di questa gestazione e di questo confronto a distanza fra il modello europeo-francese e quello americano è l’affermarsi di una polarizzazione che vede da un lato il film di Steven Spielberg, Shindler’s List e dall’altro quello di Claude Lanzmann, Shoah. Ma fra Lanzmann e Spielberg la ricezione dello sterminio ebraico si era espressa anche in altre forme e generi visivi, nella cui considerazione di Minuz ciò che è significativo è che l’estrema differenza esistente, per esempio, tra la serie televisiva Holocaust, il film di Rivette, il fumetto Mauss di Art Spiegelman, i film del genere nazi-sex-ploitation (fenomeno tutto italiano) e più in generale la trasformazione della parola «olocausto» in etichetta da utilizzare indiscriminatamente ogni qual volta ci sia la sensazione di avere toccato un eccesso di aberrazione hanno in comune proprio il giocare in vario modo con il paradigma dell’irrappresentabilità e il fatto di trasformarlo in quello che Minuz definisce «un insieme via via diventato esso stesso oggetto di gioco di transazioni e dissimulazioni per affermare e riscrivere ciò che inizialmente era stato negato».
LIBRI: ANDREA MINUZ, LA SHOAH E LA CULTURA VISUALE. CINEMA, MEMORIA, SPAZIO PUBBLICO, BULZONI, PP. 222, EURO 22,00

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