"Non sopportiamo più questo regime per anni non abbiamo fatto nulla, adesso faremo tutto"
Intorno al centro abitato ci sono i posti di blocco delle milizie che ancora sostengono Gheddafi  ">

Tra le rovine ragazzi e disertori: “Alla fine cadrà “

“Non sopportiamo più questo regime per anni non abbiamo fatto nulla, adesso faremo tutto”
Intorno al centro abitato ci sono i posti di blocco delle milizie che ancora sostengono Gheddafi 

“Non sopportiamo più questo regime per anni non abbiamo fatto nulla, adesso faremo tutto”
Intorno al centro abitato ci sono i posti di blocco delle milizie che ancora sostengono Gheddafi 

ZAWIYA – Ci sono troppe storie, c´è troppa Storia in questa domenica 27 febbraio per non iniziare a capire qualcosa. All´improvviso è come se si accendesse un faro, una fiaccola nella notte. Grazie al governo libico, che voleva far fare un giro di propaganda ai giornalisti invitati a Tripoli, siamo entrati a Zawiya, la città libica liberata più vicina alla capitale gheddafiana. Quando dopo 45 chilometri di posti di blocco dell´esercito e della milizia ci presentiamo di fronte all´ultima barriera prima di Zawiya, non crediamo ai nostri occhi. L´ufficio stampa di Gheddafi ci sta portando nella tana dei ribelli più vicino al bunker del colonnello: volevano farci vedere che sono tutti militanti di Al Qaeda, integralisti e drogati. Poi ci avrebbero portato a vedere il vero popolo libico, due manifestazioni di sostenitori di Gheddafi, “truppe cammellate” mobilitate attorno a Zawiya stretta d´assedio dai carri armati e dai sostenitori del colonnello, che in Tripolitania sono ancora molti e credono di poter combattere ancora per il loro leader.
Avanziamo increduli lungo lo stradone principale della città: a destra un posto di polizia devastato e carbonizzato, barriere di fortuna ovunque per bloccare il ritorno delle milizie. Ai posti di blocco e sui tetti ragazzi con i kalashnikov, vecchi padri e nonni con i fucili da caccia, soldati che hanno disertato al posto di comando di sei carri armati e di batterie di contraerea. Adil Oman è il «maintenance manager» di una società petrolifera, la Harouga Oil Company. Da otto giorni è qui in piazza, giorno e notte, assieme alle migliaia di cittadini di Zawiya che controllano il centro della città. «Otto giorni fa eravamo scesi in strada disarmati, uniti, abbiamo iniziato a urlare e cantare slogan contro il regime, contro Gheddafi, per la libertà. La polizia prima ha sparato i lacrimogeni, non ci siamo fermati, loro sono arretrati e all´improvviso sono tornati alla carica, sparando con i kalashnikov. I primi feriti, due o tre morti, ma noi la notte siamo rimasti in piazza, abbiamo creato le prime barriere, abbiamo bruciato il loro commissariato». Poco alla volta i ribelli si sono rafforzati, «abbiamo aperto un dispensario farmaceutico per utilizzarlo come ospedale, e loro ci hanno mandato una spia: un maggiore della polizia che ha fatto finta di essere un medico, curava e prendeva i nomi di tutti quelli che entravano: lo abbiamo scoperto, abbiamo letto i messaggi dei suoi camerati sul cellulare, gli dicevano “esci, vai via perché stiamo per attaccare”. Sono tornati all´attacco, questa volta con mitragliatrici pesanti e Rpg: da quella strada un proiettile di Rpg ha volato alto fino oltre la moschea, ma noi siamo rimasti qui». Il terzo giorno è stato il più feroce: «I miliziani di Gheddafi sono avanzati a piedi sparando all´impazzata, con le mitragliatrici pesanti hanno sparato sulla moschea, si sono affacciati all´ingresso, sparando dentro il tempio. Noi ci siamo dispersi, loro sono fuggiti, noi siamo ritornati». 
Perché avete fatto questo, perché volete questa rivolta? «Perché quello che hanno fatto a Bengasi ci ha infuriato, perché siamo furiosi da 40 anni per la violenza di questo regime, la mancanza di libertà, per la falsità degli appelli all´onore e alla dignità del popolo libico fatti da un gruppo di criminali che ha massacrato il popolo che dice di difendere. Per anni non abbiamo fatto nulla, adesso faremo tutto». Qualcuno dice che il regime ha provato anche un bombardamento, ma poi da quel momento il regime ha provato a trattare: «Ci hanno offerto 2 milioni di dollari per andarcene, abbiamo rifiutato: l´esercito ci ha lasciato le armi e si è fatto da parte, molti ufficiali e soldati sono qui con noi».
Accanto all´ingegnere Adil c´è un anziano signore, distinto e tremante: ha un cappottino grigio, un telecamerina nella mano sinistra che balla al ritmo della sua emozione. «Sono il professor Malud, sono professore di Fisica all´università, ho un master all´università di Athens nell´Ohio. Io non ho partecipato alle battaglie, ma sono qui perché ci siamo tutti. La Libia si dividerà? Noi la vogliamo unita, non vogliamo un emirato integralista, vogliamo uno stato normale, pacifico, democratico. Vinceranno gli integralisti? Ma avete sentito Gheddafi nei suoi discorsi? Minaccia solo morte e distruzione, al suo popolo, alla sua gente».
Entriamo nella moschea, nel cortile c´è un giovane, Ahmed Abelkasser, seduto a una consolle con microfono e altoparlanti. Stanno portando altre bottiglie d´acqua, cibo, coperte, pennarelli e cartelli. Quattro barbuti integralisti si affacciano e scompaiono subito: «Si, ci sono anche i religiosi, ma anche voi avete i preti, i cardinali, più estremisti, meno estremisti, anche noi vogliamo provare la vita, vogliamo costruire la nostra vita».
Zawiya non è tutta libera: solo il centro della città è occupato dai ribelli: tutt´intorno i posti di blocco delle milizie gheddafiane. Gli uomini dell´ufficio stampa ci estraggono dal centro per portarci a due manifestazioni di sostenitori del regime. Il capo è una donna, Souad Abu Traba: «Combatteremo». Sono tanti, e i militari che circondano Zawiya sono armati per la guerra. Il futuro può essere una guerra civile, ma una cosa è chiara: questi ribelli non si infiltreranno a Tripoli, non muoveranno in colonne per “liberare” la capitale. Perché i ribelli di Tripoli sono già nella città, nascosti, rinchiusi e raggelati dal terrore di una guerra civile. Vicini agli altri fratelli libici che vivono nella stessa città ma credono ancora al colonnello.

 

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