Il rais in un bunker. Fedelissimi marciano su Tripoli

Governo di transizione a Bengasi. A Tobruk l’esercito passa con i ribelli. La polizia ha avuto l’ordine di far sparire i cadaveri persino dagli ospedali . Partita anche l’infermiera ucraina che accompagnava il colonnello

Governo di transizione a Bengasi. A Tobruk l’esercito passa con i ribelli. La polizia ha avuto l’ordine di far sparire i cadaveri persino dagli ospedali . Partita anche l’infermiera ucraina che accompagnava il colonnello

TRIPOLI – Al mattino qualche ora per annusare l´odore dell´aria, poi fuori a far finta che la vita possa continuare ancora normale. Alle 10 il traffico si ingrossa, alle 11 ci sono già i primi ingorghi tripolini. Giriamo con una troupe della televisione turca, le prime immagini sono davanti a un forno: la gente aspetta ordinata e rassegnata, gli uomini in fila a destra, le donne (velate in questo quartiere) a sinistra. Mentre Levant, il collega turco, prova a fare il suo stand up davanti alla saracinesca, le ragazze si ritraggono e si nascondono col velo. La farina e il pane non mancano, ma il panettiere ha infilato gli sfilatini nel forno solo quando ha visto i primi clienti; per questo tutti attendono pazienti, infornata dopo infornata. Il caldo di un boccone di ciriola per un istante scioglie la paura. Tripoli ha paura perché tutti sanno che finirà male. Sulla Piazza Verde, sotto i bastioni del forte turco a cui venerdì sera si era affacciato Gheddafi, non ci sono più tripolini: i militanti gheddafiani arrivano dal sud, da Sebha, dal Fezzan e dai villaggi della Tripolitania. Le truppe cammellate. Sono gli ultimi disperati che continuano a credere che la rivoluzione possa continuare a vivere, che possa sopraffare questa «congiura delle televisioni arabe»: strano, una volta tanto i sionisti non c´entrano nulla. «Raccontano il falso, la polizia ha ucciso i terroristi, non hanno colpito il popolo, il popolo vincerà», dice il capitano Mahmoud. Sono militanti duri, violenti, orgogliosi, rivoluzionari. Ma un´altra rivoluzione arriva, e sarà violenza. A pochi metri dalla Piazza Verde inizia via Omar el Mukhtar, il corso Vittorio Emanuele di Mussolini. E´ il cuore del cuore della Libia gheddafiana: in un palazzo che sembra l´Inps dell´Eur c´era la sede della Sicurezza generale, la polizia. E´ totalmente devastato dal fuoco: il palazzone in marmo fascista ha resistito meravigliosamente all´esterno, ma da tutte le finestre escono sbaffi neri di fumo. L´interno è frantumato. «Sì, l´hanno incendiato 5 giorni fa», dice abbassando la voce Usama, il giovane attivista del governo che ci accompagna, «quei terroristi sono arrivati fino alla Piazza Verde». Da altre fonti arriva la notizia che i militari dell´aeroporto di Tobruk sono passati con gli insorti e che nella zona di Sebrata, ad ovest di Tripoli, le brigate fedeli a Gheddafi hanno aperto il fuoco sui rivoltosi. Poco alla volta, in un processo di approssimazioni successive che per un giornalista straniero è doloroso e logorante, i pezzi delle diverse verità iniziano ad affiancarsi. L´aviazione non ha bombardato i quartieri, ma la contraerea montata sui pick-up Toyota sì. Nella sparatoria che raccontavamo ieri di fronte alla moschea di Piazza Algeria la gente è morta perché i kalashnikov hanno sparato da subito ad altezza d´uomo. I compagni delle vittime hanno trascinato i morti immediatamente negli androni dei palazzi perché la polizia e le milizie hanno l´ordine di far sparire i cadaveri, per evitare la conta dei morti. Negli ospedali non ci sono stupri, ma – appunto – i corpi vengono rapiti per cancellare tracce della verità. È così davanti alla sede del Parlamento: messo a rogo una settimana fa, il Comitato generale del popolo è stato ritinteggiato alla men peggio giovedì mattina. Cancellare, nascondere, rinviare la verità. Gli unici attivi per strada assieme ai poliziotti sono gli spazzini africani in tuta arancione che lavorano per il comune di Tripoli: davanti alle moschee le barricate di pietre e mattoni sono state ripulite. Venerdì alla moschea turca di via 11 Giugno avevano provato a resistere, ma le milizie hanno sfondato con i blindati. Il giornalista turco impazzisce quando sa che può fare uno stand up davanti alla moschea turca. A terra ci sono ancora bossoli di kalashnikov, di fronte una panetteria e una frutteria hanno riaperto per poche ore. Dopo pranzo, nel cielo improvvisamente azzurro, passa il rombo di 3 o 4 elicotteri militari: due ore e arrivano notizie da Misurata, «mercenari sbarcati da elicotteri sparano sulla folla ai funerali». Seif el Islam, il figlio di Gheddafi dice che «in Libia non ci sono mercenari, metà del popolo è nero». Come dire «non sono mercenari, sono soldati neri del Sud». A Tajura, il quartiere dietro l´aeroporto militare, venerdì la battaglia è stata furiosa: sulla strada abbiamo visto soltanto i residui delle barricate di blocchi di cemento, bidoni e vecchi televisori. Ma nei vicoli la polizia non entra, i blocchi sono ancora lì e agli angoli compaiono i primi «shebab» i ragazzi di questa nuova rivolta libica. Un medico ha detto a qualcuno che i morti venerdì sono stati 70. e se solo venerdì sono stati 70 da qualche parte, fra qualche giorno, fra qualche mese scopriremo che le fosse comuni c´erano per davvero, sono state scavate e riempite in fretta, adesso. «Gheddafi si lamenta per le bugie di Al Jazeera di questi ultimi mesi», dice un amico libico, «ma pagherà per la violenza e gli omicidi di 40 anni». L´agghiacciante conferma di Saif Gheddafi, «ci avviamo verso una guerra civile», è una maledizione per tutto il popolo libico. Una maledizione a cui molti provano a sottrarsi in extremis: la notizia degli ambasciatori che hanno abbandonato per Gheddafi è il segnale definitivo. Abdurrahman Shalgam, ex ministro degli Esteri, ex ambasciatore a Roma, amico di Andreotti e Craxi, ha lasciato il suo posto alle Nazioni Unite un attimo prima di leggere la lista di tutta la famiglia Gheddafi inserita nei proscritti dell´Onu. Hafed Gaddur, il mentore di Saif el Islam, il potentissimo e intelligente ambasciatore a Roma, ha dovuto fare lo stesso: è l´uomo che traduceva fra Gheddafi e Berlusconi, sul suo cellulare sono memorizzato i numeri di Maroni, Pisanu, dei capi delle polizie italiane e degli industriali. Di fronte al sangue in cui affonda il regime ha dovuto lasciare. Non sono funzionari, uomini distanti dal Gheddafi: sono stati per anni i suoi occhi, la sua intelligenza, gli strumenti della sua politica. Hanno capito che troppo tardi il giovane, pulito Saif ha conquistato un posto sulla scena, che troppo tardi ci si è accorti che 40 anni di repressione non uccidono un popolo, ma lo portano alla rivolta. Una delle ultime a partire è stata Galina Kolotnitska, l´infermiera ucraina che da qualche anno accompagnava il colonnello ovunque, anche nei suoi viaggi all´estero, a Roma come a Parigi. Ha avuto anche lei paura per il diluvio che travolgerà questa città. Mentre secondo il quotidiano online Quryna l´ex ministro della Giustizia già lavora a Bengasi alla formazione di un governo a interim.

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