Mi trovo in piazza Tahrir; e tra i tanti spettacoli sorprendenti che si vedono qui sono soprattutto colpito da un uomo barbuto che saltella qua e là e si sgola letteralmente urlando: «Mi sento libero! Mi sento libero!».
Mi trovo in piazza Tahrir; e tra i tanti spettacoli sorprendenti che si vedono qui sono soprattutto colpito da un uomo barbuto che saltella qua e là e si sgola letteralmente urlando: «Mi sento libero! Mi sento libero!».
Intorno a lui si è radunata gente di ogni età – comprese alcune donne velate dalla testa ai piedi, tranne due fessure per gli occhi – che coi telefonini alzati riprendono con foto e video l´uomo determinato a catturare quest´attimo, per il caso che non si ripresenti più.
Ma non è forse questo lo stato d´animo di tutti noi? Da 40 anni scrivo sul Medio Oriente, ma non ho mai visto nulla di paragonabile a ciò che accade su questa piazza. In una regione in cui la verità (insieme a chiunque abbia osato esprimerla) è stata così a lungo soffocata sotto il peso schiacciante del petrolio, dell´autocrazia e dell´oscurantismo religioso, si è aperto all´improvviso uno spazio autenticamente libero, ad opera degli stessi egiziani e non per mano di eserciti stranieri. Girovagando per questa piazza si è testimoni di tutte le speranze, aspirazioni e frustrazioni represse per mezzo secolo. So bene che secondo gli «esperti» realisti tutto questo è destinato a finire presto. Forse hanno ragione. Ma per un breve e luminoso momento dimentichiamo gli esperti e prestiamo attenzione solo a queste voci mai sentite prima. Quelle di un popolo per tanto tempo condannato al mutismo, che finalmente ritrova l´uso della parola, mette alla prova la propria voce e la celebra.
Un ingegnere 50enne, Hosam Khalaf, mi ferma per dirmi: «Abbiamo ricevuto un messaggio da Tunisi che dice: “Non vi bruciate, bruciate la paura che è in voi”. Ecco cos´è successo qui: la nostra era una società impaurita, ma ora abbiamo bruciato la paura». Khalaf mi spiega perché è venuto qui con sua moglie e sua figlia: «Quando incontreremo Dio potremo almeno dire: “Abbiamo tentato di fare qualcosa”». Ma qui non stiamo assistendo a un evento religioso, e a gestirlo non sono i Fratelli Musulmani. Quello che è in atto è un evento egiziano: qui sta la sua forza, ma anche la sua debolezza. Nessuno ha un incarico preciso, e su questa piazza è presente la società intera: si vedono ragazze emancipate vestite all´ultima moda, sedute accanto a donne velate; genitori con bimbi in carrozzina e in mano cartelli con la scritta: «Mubarak se ne deve andare»; studenti in jeans e contadini con lunghe vesti. A unirli è il desiderio indomabile di riprendersi il futuro.
«Per la prima volta nella mia vita riesco a dire in pubblico quello che penso», dice Remon Shenoda, ingegnere informatico. «Qui siamo tutti accomunati dal desiderio di dire qualcosa».
È diffusa e palpabile anche la forte sensazione di essere stati defraudati da questo regime e dai suoi sodali, che oltre a sottrarre ricchezza a questo popolo lo hanno privato di qualcosa di molto più prezioso: il futuro di un´intera generazione, alla quale il potere non ha saputo dare né gli strumenti per crescere e affermarsi, né una visione ispiratrice degna della grande civiltà egiziana.
«Noi tutti crediamo nella grandezza di questo Paese, che ha profonde radici nella Storia; ma il regime di Mubarak ha distrutto la nostra dignità di egiziani nel mondo arabo e ovunque» dice Mohamed Serag, docente all´università del Cairo. Qui tutti tengono a presentarsi indicando il proprio nome, e si assicurano che sia scritto correttamente. Sì, la paura è davvero svanita.
Ovunque si esprime il malcontento. Un´anziana velata parla delle tre figlie diplomate presso un istituto commerciale, tutte disoccupate. Molti cartelli fanno riferimento al passato di Mubarak, già ufficiale delle forze aeree, con domande del tipo: «Signor pilota, dove li hai presi quei 17 miliardi di dollari?»
Non si fa quasi cenno a Israele, e le foto dei «martiri» esposte tutt´intorno alla piazza – cosa davvero inconsueta nel mondo arabo – sono quelle degli egiziani morti lottando per la libertà, e non contro lo Stato ebraico.
Si accede alla piazza dopo una serie di controlli: un gruppo di volontari verifica le carte d´identità, un altro gruppo si accerta che i nuovi venuti non siano armati; si passa poi tra una doppia fila di uomini che applaudono intonando un canto di benvenuto egiziano.
Devo confessare che in quel momento ero in preda a due stati d´animo opposti. Il mio cervello mi diceva: «Stai calmo e ricordati che da queste parti non c´è aria da lieto fine: qui sono sempre i cattivi a vincere»; ma i miei occhi volevano solo guardare e prendere nota di una realtà mai vista prima.
È una lotta titanica, un braccio di ferro tra un potere ormai stanco ma tuttora forte, nato da una rivoluzione calata dall´alto (guidata nel 1952 dall´esercito egiziano) e la nuova rivoluzione del 2011, sorta dalla base, vibrante anche se caotica, priva di armi ma forte di una legittimazione a tutta prova. Mi auguro che i contestatori di piazza Tahrir riescano ad organizzarsi almeno quanto occorre per negoziare con l´esercito una nuova costituzione. Le difficoltà e gli insuccessi non mancheranno. Ma qualunque cosa accada, l´Egitto non sarà più come prima.
Una volta lasciata la piazza Tahrir e attraversato il ponte sul Nilo, il professor Mamoun Fandy mi ha citato un´antica poesia egiziana che dice: «Il Nilo muta tante volte il suo corso, ma mai si potrà prosciugare». E questo è vero anche per il fiume di libertà che scorre oggi in questo Paese. Sarà forse deviato per qualche tempo, ma non potrà inaridirsi.
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