Classe Operaia. Il sapere delle lotte

60 anni fa il primo numero di «Classe Operaia», uno dei laboratori dell’operaismo che anticipò molte delle attuali riflessioni sui lavoratori della conoscenza e l’annuncio dell’intelligenza artificiale

60 anni fa il primo numero di «Classe Operaia», uno dei laboratori dell’operaismo che anticipò molte delle attuali riflessioni sui lavoratori della conoscenza e l’annuncio dell’intelligenza artificiale

 

Sono passati 60 anni. Porta la data «febbraio 1964» il primo numero di Classe Operaia, la rivista che ha dato la struttura definitiva a quel sistema di pensiero che avremmo chiamato «operaismo». Le basi però erano già state poste nei primi numeri dei Quaderni Rossi. Sebbene la figura di Raniero Panzieri sia stata centrale per la concezione e la raccolta di energie che hanno dato vita ai Quaderni Rossi, Mario Tronti, avendovi già esposto il nocciolo del suo pensiero, assumeva naturalmente il ruolo di maître à penser.

Ma sia l’uno che l’altro traevano alimento da un consistente lavoro d’inchiesta a stretto contatto con le lotte operaie di tipo nuovo, che avevano preso piede dal 1960 in poi. Militanti di solida preparazione metodologica nella ricerca come Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Emilio Soave, Romano Alquati e via via tanti altri, univano una conoscenza dell’organizzazione del lavoro industriale a quella che divenne la specifica caratteristica dell’operaismo: la capacità d’individuare le dinamiche soggettive del conflitto. A «mettere la classe operaia al centro» – come si diceva allora – erano bravi in tanti, ma forse solo il punto di vista operaista ha saputo inserire in un sistema teorico la capacità di autodeterminazione delle donne e degli uomini soggetti al sistema socio-tecnico fordista, sottraendo la soggettività/spontaneità a una lettura puramente psico-sociale.

NEL SETTEMBRE 1963 avviene la separazione dai Quaderni Rossi e nasce Classe Operaia: Toni Negri (t.n.), Mario Tronti (m.t.), Alberto Asor Rosa (a.a.r.), Romano Alquati (r.a.), il nostro gruppetto milanese/comasco, i fiorentini, i padovani, gli emiliani-romagnoli di Guido Bianchini, i genovesi. Dal numero 2 cominciano a essere riportati i nomi di coloro che di volta in volta hanno collaborato, ma solo dal n. 1 del secondo anno, 1965, appare una lista di nomi come componenti di una «redazione» permanente (Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Claudio Greppi, Gaspare De Caro, Toni Negri) sotto la direzione di Mario Tronti. Editore, la Marsilio di Padova, direttore responsabile Francesco Tolin. La testa a Roma (Tronti), le gambe a Padova (Toni Negri).

In realtà Classe Operaia è stata molto di più e basta scorrere i numeri, con quella scrittura fitta, densa, con quei caratteri impossibili. E scopriamo allora che la parte largamente più cospicua è occupata dall’analisi delle lotte operaie. È lì che si manifesta – a mio avviso più ancora che negli scritti teorici – il segreto dell’operaismo, perché l’analisi delle lotte, quella che nei Quaderni Rossi era ancora classificata come «cronaca», diventa marxismo vivente e soprattutto punto di sutura tra lavoro di conoscenza e lavoro vivo, tra militanza e classe.

COGLIENDO IL METODO di quelle analisi, salta subito agli occhi la banale superficialità del giudizio sprezzante con cui alcuni hanno voluto liquidare l’operaismo come «estetizzazione del conflitto sociale». Se c’è qualcosa di datato semmai nei discorsi di quella rivista è la pervasività di una cultura industriale, di una cultura manifatturiera, troppo ristretta alla produzione di merci e poco indagatrice dei processi di valorizzazione, tanto da far pensare che alla sua uscita, nel 1966, l’opera di Tronti Operai e capitale volesse già andare oltre, avesse la forza di guardare più in là. Con un ritorno ai testi di Marx, dopo che la rivista, dal famoso editoriale di Tronti «Lenin in Inghilerra» del n. 1 del 1964 a «Lenin e i soviet nella rivoluzione» di Negri sul n. 2 del 1965, si era concentrata soprattutto sul problema dell’organizzazione e del partito.

Un ritorno a Marx che sarebbe stato ancora più illuminante l’anno successivo, quando esce la traduzione dei Grundrisse ad opera di Enzo Grillo. È l’anno, il 1967, in cui coloro che non hanno seguito Mario Tronti, Asor Rosa e Rita di Leo nel loro rientro nel Pci, coloro che hanno visto con amarezza la chiusura di Classe Operaia, mettono in circolazione il termine «operaio massa», cogliendo il senso di un processo che aveva modificato, lungo il decennio, la composizione di classe e riproponeva in termini nuovi il rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra ceto intellettuale e lavoro vivo.

Classe Operaia resterà come qualcosa di più che la testimonianza di una generazione che si è schierata senza mezzi termini da una parte sola. Avrà sempre qualcosa da dire (o da insegnare) a chi sa (o vuole) riconquistare la libertà dalla costrizione del lavoro. Si pensi, per fare un esempio, al «discorso sui tecnici», nato dall’interno delle prime realizzazioni dell’informatica in Italia, un discorso che ha anticipato di qualche decennio quello, che ancora ci sfida, sui «lavoratori della conoscenza» e sull’intelligenza artificiale. Si pensi alla dimensione internazionale, presente già nel numero 2. Si pensi a tutte le tematiche che riguardano una forza-lavoro ibrida, industriale ma con ancora un piede nel mondo contadino, le tematiche dell’agro-industria, dove maestro ci è stato Guido Bianchini, un nome che non compare mai sulla rivista, ma che è ricordato ancora oggi quale figura di primo piano in quel «Potere operaio veneto-emiliano» che era il gruppo con la più solida struttura nel progetto di Classe Operaia, mentre altrove erano singole personalità che facevano da tramite con situazioni operaie di enorme rilevanza. Come Genova, dove la presenza di Gianfranco Faina ha lasciato un segno che difficilmente si cancella.

LA BASE LOGISTICA della rivista era Firenze, per la sua collocazione baricentrica rispetto a diverse realtà locali e questo spiega la presenza costante di Claudio Greppi sia nella realizzazione dei singoli numeri, sia nella «redazione» permanente, affiancato da personaggi indimenticabili come Luciano Arrighetti, operaio della Galileo, da Giovanni Francovich, prematuramente scomparso, da Lapo Berti, che sarà uno degli animatori di “Primo maggio” negli anni Settanta, da Mario Mariotti, l’autore delle geniali vignette, ed altri.

Dopo la chiusura della rivista, nel 1968-69, gli operaisti dovettero subire l’urto del farsi realtà delle loro teorie, in misura superiore a ogni immaginazione: maggio francese, lotte alla Pirelli, lotte alla Fiat… fu un salto da una dimensione minoritaria a un movimento di massa, da conflitti latenti a guerre aperte. Un salto dal quale non è sempre facile uscirne bene.

Ma questa è un’altra storia.

* Fonte/autore: Sergio Fontegher Bologna, il manifesto

 

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