All’assemblea organizzata dalla Fiom il racconto dei testimoni di quell’incredibile stagione di lotte alla Fiat di Mirafiori
Una svolta radicale che rinnovò il sindacato e raccolse la spinta del movimento degli studenti
TORINO. L’assemblea si è aperta con la commemorazione del compagno Norcia, mancato proprio due giorni fa. Norcia non era uno qualsiasi, per tante ragioni: cominciò con l’imporre ai sindacalisti piemontesi di parlare in italiano, visto che ormai il grosso degli operai Fiat era meridionale e il loro dialetto non lo capivano. Ma poi divenne ben più celebre perché nel drammatico 1980, quando la Fiat aveva annunciato la messa in cassa integrazione di migliaia di operai e il segretario del Pci era venuto a Mirafiori a dare solidarietà, lui, arrampicato su un pilone, gli aveva gridato: «Compagno Berlinguer, e se noi occupiamo la fabbrica, che farà il Pci?». La risposta è famosa: «Staremo con voi». Un annuncio che scandalizzò non solo i ben pensanti, ma anche molti dei fautori delle successive reincarnazioni vegetali del Pci.
Giorgio Airaudo presenta un libro preparato per l’occasione, si chiama semplicemente Torino ‘69 (ed. Laterza), autori Salvatore Tropea, Ettore Boffano, ma soprattutto le foto di Mauro Vallinotto: Torino come era allora, non solo la fabbrica, ma i treni che riportano i lavoratori alle periferie a fine turno, addormentati in piedi per la stanchezza, e le soffitte dove vivono le famiglie degli immigrati. Un volume prezioso: perché allora tutta la città viveva al ritmo della grande fabbrica, oggi quella identità è stata cancellata.
Mi sono emozionata, sul serio. E non solo per il ricordo di Norcia. Sono passati cinquant’anni, ma per chi ha vissuto l’esperienza di quella stagione alla porta numero 2 di Mirafiori, quando Torino era diventata per la nuova sinistra la Mecca cui non si poteva non fare riferimento, e infatti arrivavano in pellegrinaggio ragazzi non solo da tutta Italia ma anche dall’estero, è difficile non commuoversi ritrovandone i protagonisti, gli straordinari operai che imposero una svolta radicale.
SIAMO NELLA GRANDE sala della Camera del lavoro, presenti circa 500 delegati del Piemonte, quelli che allora non erano nemmeno nati, ma che comunque non sono, neppure loro, più giovanissimi: di assunti negli ultimi anni ce ne sono ormai pochi. Un appuntamento dedicato alla memoria, che chi vorrebbe tener tutti chiusi nella gabbia del presente, cerca di cancellare.
Perché sopprimendo il passato si fa smarrire il senso stesso del tempo e del cambiamento, per cui non si riesce più nemmeno a immaginare che possa esserci un futuro diverso.
Il ricordo non è stato retorico, né parolaio: ognuno ha raccontato il proprio vissuto, in quel o quell’altro reparto, le sue fatiche e le sue rabbie per l’arbitrio totale dei 3.000 capetti che alla Fiat avevano il potere di importi quello che volevano; la felicità e l’orgoglio di quando quel potere si è riusciti a smantellarlo, trovando la forza di disubbidire tutti, di praticare l’obiettivo senza aspettare la sua legittimazione; la soddisfazione dei più giovani sindacalisti che avevano capito che le vecchie strutture di rappresentanza – le Commissioni interne – non potevano farcela e bisognava trovare forme più dirette, capaci di raccogliere l’energia della grande massa di operai nemmeno iscritti alla Fiom, tanti appena arrivati dal sud. E poi l’incontro con gli studenti, l’appoggio che ne è venuto e anche lo scontro, e però un confronto fantastico in quella straordinaria agorà che erano diventati i cancelli della fabbrica, dieci volantini diversi diffusi in contemporanea e capannelli e comizi volanti, mischiati alle grida degli ambulanti cresciuti attorno a quello che era diventato un vero suk. Perché tutti si fermavano, nessuno correva via isolato all’uscita del turno come tristemente accade ora, perché tutti volevano partecipare. È qui che l’operaio diventa protagonista. Prima invisibile, si impone in questa stagione all’immaginario collettivo, tanto che si riflette nel cinema (fra il ’70 e il ’75 una decina di film, non documentari, ma commedie, Monicelli lo fa impersonare da Tognazzi, l’attore più popolare) e nella canzone: Iannacci, De André…
L’APPUNTAMENTO è stato fissato lunedì 18 perché era il 18 novembre 1969 – lo racconta Paolo Franco, allora segretario della lega Mirafiori, quella storica di Viale Unione Sovietica – quando in risposta a 200 sospensioni della Fiat gli operai si riuniscono al palazzetto dello sport per “processare” l’azienda. Che si spaventa: perché già dal maggio era cominciata la rivolta, e il sindacato stesso è sorpreso che gli operai, molti nemmeno sindacalizzati, abbandonino in massa le linee. È l’inizio della svolta che via via produrrà una mobilitazione straordinaria, anticipando la vertenza per il contratto nazionale. È un autunno caldo che qui comincia a primavera. È maggio, infatti, quando cambia il modo di impostare le vertenze, non più – ricorda Paolo Franco – nella sede esterna, ma negli stessi reparti. Quella che sancisce la nascita storica dei delegati dei gruppi omogenei viene contrattata sulle scale dietro il dancing Bambi, subito eletti 56 più altrettanti sostituti, l’embrione di quello che diventerà il “consiglione” Fiat. Racconta del timore che i segretari della Fiom e della Camera del lavoro, che non sono lì e non sono informati di questo mutamento della rappresentanza che diventa diretta e non più mediata dalle Commissioni Interne, si arrabbino per questa scelta non discussa. Ma a Torino segretari sono Paci e Pugno, due sindacalisti speciali, che accolgono la spinta nuova. E sostengono dentro tutta la Cgil il mutamento necessario. «Quando c’è la prima assemblea nazionale dei metalmeccanici per impostare il rinnovo del contratto, a Milano, dove tradizionalmente erano più avanti di noi, finalmente – racconta Franco – potemmo alzare la testa: Torino non era più la palla al piede, era diventata l’avanguardia».Sono i protagonisti stessi che testimoniano, quelli che allora avevano vent’anni e ora hanno i capelli già molto grigi. Comincia Cesare Cosi a dire cosa era l’arbitrio del capetto, che poteva decidere tutto: qualifica, trasferimento, vessazioni gratuite. 3000 capetti per 53.000 operai! Giampiero Carpo il suo primo sciopero lo fa per ottenere che il turno di notte fosse assegnato ogni 5 settimane e non ogni tre. Lui va alle scuole serali, e così incontra gli studenti, partecipa anche all’occupazione di palazzo Campana. Ma gli studenti di Torino la Fiat l’hanno scoperta dal ’67, quelli delle scuole medie hanno persino fatto un’inchiesta sui loro coetanei operai. Antonio Falcone nel riferire la sua esperienza non si trattiene dal dar voce all’amarezza: allora – dice – soffiava un vento di sinistra. Oggi se vuoi stare a sinistra devi remare, non ci sono più ideologie, puoi contare solo sulla tua forza. Ma se si lotta – conclude – viene la fiducia. È con la lotta che abbiamo cambiato la Fiat, perché all’inizio avevamo a che fare con una maestranza che se vedeva un capellone fischiava. E fischiarono anche alle donne, quando entrarono anche loro in fabbrica. Ma questo durò poco, perché anche le donne nella lotta acquistarono forza, anzi, dicevano che lì avevano ottenuto la libertà che in casa gli era negata.
Silvio Canapè veniva da Napoli. Mica vero che Torino ci accolse a braccia aperte, racconta. Ma dal sud, dicono quelli del nord, dalla fine dei ’60 arrivano giovani diversi da quelli di dieci anni prima, non sono più contadini analfabeti, sono stati a scuola. E poi ne arrivano anche dalla Germania, una seconda immigrazione. E ancora Corrado Montefalchesi, operaio manifesto, che in seguito diventò nostro consigliere regionale. Veniva dall’Umbria (oggi, dice, della mia regione non posso più essere orgoglioso); e poi parla della “nostra linea”, che fu più giusta, perché polemizzò con il sindacato, ma collaborando a costruire la straordinaria esperienza dei Consigli che Lotta Continua, molto presente a Torino, invece osteggiò.
Di Lotta Continua parla un suo militante illustre, in qualità di ex del collettivo studenti-operai: Giovanni De Luna, oggi storico autorevole. Dice Montefalchesi, tutto cambiò quando un dirigente del Pci (Renzi?), cui fu chiesto se stava con la Fiat o con gli operai, rispose: io sto con Marchionne. Mariangela Rosolen, invece, non era operaia, ma impiegata a Viale Marconi, la prima della categoria a ribellarsi e a scioperare. È stata anche deputata del Pci, adesso, mi dice, sono fuori da tutto. E poi dice la sua Gianni Marchetto, che da anni scrive un suo commentario politico che ricevo una volta alla settimana per e mail. Interviene anche Adriano Serafino: era segretario della Fim, che fu importante.
Viene data anche a me la parola, come manifesto, il solo intervento che non è né operaio né sindacalista né studentesco, né solo giornalistico. Una grande soddisfazione, di cui sono grata alla Fiom. (Ma se guardo al Manifesto Rivista dal ’69 e poi a lungo, un po’ ce lo siamo meritati: ci sono quasi esclusivamente cronache delle lotte operaie, (una su porto Torres firmata addirittura da Luigi Berlinguer), molte scritte dagli stessi operai. Un mio lunghissimo Rapporto sulla Fiat fu persino ripubblicato su Temps Moderns, la rivista di Sartre.
L’ITALIA FECE SCUOLA: perché qui la Fiom, e poi sebbene all’inizio reticente, anche la Cgil, pur fra incomprensioni reciproche e contrasti, raccolse la spinta che veniva dal movimento degli studenti e quindi dalla “nuova sinistra”, e ne veicolò molte delle innovazioni. A differenza della Cgt francese che respinse gli studenti chiamandoli “figli di papà”, senza capire che si trattava di nuovi soggetti sociali antagonisti, quelli che poi furono chiamati “intellettuali proletarizzati”. Per questo il nostro ’68 e poi il nostro ’69 durò quasi dieci anni.
L’operazione più manipolatrice che si è verificata in occasione di questi cinquantenari intrecciati è di avere separato le due esperienze, per cercare di ridurre l’una a uno stupido antiautoritarismo contro il papà all’antica e il prof troppo rigido, e l’altro a una mera qualsiasi vicenda sindacale. Iniziative come quella presa dalla Fiom di Torino rendono giustizia, grazie alla testimonianza dei protagonisti, alla storia. Grazie Fiom.
* Fonte: Luciana Castellina, il manifesto
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