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“Io, bambina fabbricata dal Reich”. La figlia di Hitler

Una madre fanatica ariana, un padre ufficiale nazista, un programma chiamato “Lebensborn” per creare la razza perfetta. La storia di Barbara Orlop e di altri migliaia come lei: nati per volere del partito, affidati a famiglie fedeli, abbandonati dopo la caduta. E costretti a ricostruirsi una vita distrutta da quando hanno saputo come sono venuti al mondo. Si chiamava Piano Lebensborn: bambini “di pura razza ariana” nati solo per volere del Terzo Reich Barbara Orlop è una di loro

 

Una madre fanatica ariana, un padre ufficiale nazista, un programma chiamato “Lebensborn” per creare la razza perfetta. La storia di Barbara Orlop e di altri migliaia come lei: nati per volere del partito, affidati a famiglie fedeli, abbandonati dopo la caduta. E costretti a ricostruirsi una vita distrutta da quando hanno saputo come sono venuti al mondo. Si chiamava Piano Lebensborn: bambini “di pura razza ariana” nati solo per volere del Terzo Reich Barbara Orlop è una di loro

  RUDOLSTADT (Turingia). «Con mia madre feci pace solo due anni prima della sua morte, ma non riuscii mai a chiamarla mamma. L´uomo che mi generò non lo conobbi mai, morì da nazista convinto sul fronte russo. Non l´ho mai sentito come un padre, ho vissuto col timore di vergognarmi di suoi possibili crimini di guerra. Eccomi, io fui uno dei tanti bambini nati con l´organizzazione Lebensborn, gli ariani perfetti voluti da Hitler. Riuscii a darmi da sola la vita normale che il nazismo mi negò organizzando la mia nascita, solo da adulta seppi com´ero nata. Oggi sono una nonna felice, anche se l´uomo che mi ridette una vita, mio marito, è appena morto, stroncato dal cancro».
Il paesaggio innevato splende dalla terrazza della casetta di Rudolstadt, tra valli e colline boscose e quasi toscane della Turingia, dove ascolto Barbara Orlop narrare i suoi ricordi. Lebensborn, fonte della vita, si chiamava quella creazione della demoniaca perfezione nazista.
Nei centri Lebensborn le donne nubili provatamente ariane e fedeli alla tirannide potevano incontrarsi con giovani, aitanti uomini altrettanto ariani e fedeli. Il più delle volte, soldati o ufficiali delle Ss. Dovevano incontrarsi per procreare, oppure se avevano già fatto sesso prima con un uomo ariano e nazista doc la madre partoriva là. Poi il bimbo diveniva proprietà del Partito-Stato. Veniva affidato a famiglie di piena fiducia delle Ss, della Gestapo, della Nsdap (il partito nazista). L´Rsha, l´ufficio centrale per la sicurezza del Reich, vegliava su tutto. Niente famiglia naturale, ma bimbi ariani da spargere per il Paese, per procreare la razza superiore. Non dovevano essere persone felici, solo perfetti e fedelissimi ariani.
«Classe 1918, mia madre Else aveva subito un trauma tremendo. Sua mamma si tolse la vita nel 1933, fu lei a trovare il cadavere. Dall´inizio mia madre fu una nazista convinta, si iscrisse alla Nsdap, divenne capo del Bund deutscher Maedchen, l´Unione delle fanciulle tedesche, a Erfurt». Mentre parliamo Frau Barbara offre un buon caffè caldo con ottimi dolci, tradizione dell´ospitalità e del quotidiano familiare dei tedeschi. Apre una cartella conservata con cura, mostra documenti e foto della sua vita. «Ecco, guardi, questa era mia madre da giovane… e questo palazzotto nel verde è l´istituzione nazista dove sono nata io». Edificio Lebensborn a Wernigerode, Hartmannsweg numero uno. Là, come dice il freddo certificato di nascita nazista stilato da un´anagrafe speciale e segreta, con tanto di timbro con l´aquila che sormonta la svastica, Barbara vide la luce. Come bimba dichiarata benvenuta nel Reich dal regime, ma non voluta dalla mamma. «Lei e l´uomo che mi generò si conobbero negli ambienti delle organizzazioni naziste. Lui era un militare, già sposato». Andarono a letto insieme, erano entrambi ariani. Lei scelse di partorire con l´organizzazione Lebensborn. «Non aveva detto a nessuno in famiglia, neanche ai suoi fratelli, di essere iscritta al partito, e solo molto dopo loro seppero che aveva avuto un bambino».
Era il novembre 1940, Hitler aveva già scatenato la Seconda guerra mondiale quando Barbara venne al mondo, battezzata come tutti i bimbi Lebensborn con un tetro cerimoniale nazista: ufficiali Ss officianti all´altare, il pugnale Ss sul petto del neonato. Varsavia, Danzica, Rotterdam e Coventry erano state rase al suolo dalla Luftwaffe, quasi tutta l´Europa era occupata dalla Wehrmacht e – tra un´America ancora neutrale e l´Urss che si era spartita la Polonia con i nazisti – nel mondo in cui Barbara nacque, solo caccia Hurricane e Spitfire della Royal Air Force resistevano, nel cielo sopra Londra, alla Germania che sembrava invincibile. I tedeschi non avevano ancora assaggiato la guerra in casa, il consenso alla tirannide restava altissimo. Else accettò subito la proposta del Lebensborn: dare Barbara in adozione a una famiglia di fiducia del regime. Non ci pensò un momento, le sue certezze poggiavano tutte sulla fede nel Fuehrer, non sull´affetto verso la piccola. «Fin dall´estate del ´41, passai come una palla da una famiglia affidataria a un´altra. Alla fine approdai a Tautenburg dalla famiglia F., e lì crebbi», racconta Barbara mostrando le foto di lei piccola in braccio alla madre adottiva. «Mamma e papà adottivi furono buoni con me. Finché il regime restò al potere furono ricompensati con soldi e aiuti in natura, il letto per me, la carrozzina, i vestiti, ogni rifornimento. Qualche soldo glielo mandava anche mia madre, ma si faceva vedere poco o mai, non voleva che la riconoscessi».
Nel 1945, la svolta. Per il mondo, e per la vita della piccola Barbara. «Nella Germania distrutta dalla guerra di Hitler regnavano freddo, fame e miseria. Ai miei genitori adottivi andava malissimo, mio padre guadagnava a stento qualcosa come operaio forestale. Mia madre, quella vera? Non so come visse la fine della dittatura in cui aveva gettato anima e corpo, ma so che di tanto in tanto continuava a mandare dei soldi. Continuavano anche le sue visite, là da loro, dove crescevo, e io cominciai a sospettare che la mia vera madre fosse lei. Ma a ogni mia curiosità o bisogno d´affetto lei reagiva con freddezza infastidita. Sapeva solo criticare, davanti a me bambina, il modo in cui mi educavano e mi crescevano. I miei genitori adottivi furono sempre molto cari con me, ma per le loro figlie naturali io ero “il verme”, il “parassita”. Quella che rubava dai loro piatti il poco che c´era da mangiare. Furono dure, aggressive con me».
Ogni giorno, crescendo, Barbara si sentiva più sola, diversa dagli altri, coetanei e adulti. «Il Natale, anche per i bambini di quella Germania che Hitler aveva lasciato distrutta, all´anno zero, era la festa più attesa e gioiosa. Ma i miei genitori adottivi avevano troppo poco, e non ce la facevano a scontentare le loro figlie naturali. Quando veniva il momento della distribuzione dei doni sotto l´albero, a me dicevano “il tuo Natale arriverà quando verrà tua madre”. Ma mia madre ormai non si faceva più vedere, nemmeno per portare qualche soldino in più per farmi un regalo. Passai molte notti sveglia, piangendo nel mio lettino, sognandola e aspettandola invano».
Venne il dopoguerra della Germania divisa. Barbara si trovò a crescere nella Ddr. «Mi sentivo sola al mondo, capivo che la mia madre vera non mi aveva mai voluto, ma non sapevo ancora perché e come ero nata. La disperazione mi spinse a farmi avanti. Dalla piccola Tautenburg, il villaggio dove vivevo con la famiglia adottiva, andai da sola alla scuola di Dorndorf, la più vicina. Chiesi al preside di accettarmi. Di mia iniziativa. Erano anni poveri, andavo a scuola facendo sette chilometri a piedi, quando andava bene il lattaio o il becchino del paese mi davano un passaggio col furgone del latte o con il carro funebre. Conseguii la Abitur, la licenza liceale, cominciai gli studi superiori in un collegio di Stato. Nel weekend ero l´unica a restare al collegio, non avevo una famiglia dove andare. I miei genitori adottivi mi avevano già congedato, era venuto “il momento di salutarsi”, mi avevano detto. Conobbi lì mio marito, ci sposammo presto. Solo allora mia madre si fece viva, per dirmi di “non sposarlo, è solo un operaio”. Ma noi studiammo, diventammo insegnanti. Lui mi riportò alla vita, mi ha regalato un´esistenza felice di moglie, di madre e nonna».
L´età adulta fu per Barbara la rivincita col passato, per costruirsi una vita normale. I figli, poi i nipoti. «Il passato riemerse nel 1968, durante una gita organizzata dal sindacato. A Wernigerode. Sapevo che ero nata là ma nulla di più. Chiesi informazioni, e per la prima volta appresi – vede questo certificato con la svastica? – che ero nata non per far felice una coppia, una famiglia, ma per i disegni razzisti del Reich». I contatti con la madre si fecero più radi. «Dal 1970, lei volle rompere ogni rapporto con me. Non mi ha voluta vedere per trentasette anni, fino a due anni prima della sua morte». Altre svolte: la crisi del blocco sovietico, la caduta del Muro, la riunificazione. «Nel 2007, ormai anziana e malata, accettò di vedere me, i miei figli, i miei nipoti. A volte piangeva, mi disse “non hai mai avuto nulla da me”. “È acqua passata”, le rispondevo. Non la chiamai mai mamma, ma accettai le sue lacrime, le fui vicina sul letto di morte. Eppure non volle mai rivelarmi nulla, mai, fino al suo ultimo respiro. Poi riuscii da sola a scoprire chi era l´uomo che mi aveva generato. Trovai il suo certificato di morte: caduto in battaglia a Nikola´evka, sul fronte russo, il 27 luglio 1943, nei ranghi del 542mo reggimento granatieri della Wehrmacht, col grado di sottufficiale».
«Coraggio, mamma, quel che non t´uccide ti rafforza», le dice il figlio. Barbara è scossa dai ricordi. Poi si riprende, racconta ancora. «Ogni anno ci incontriamo, a Wernigerode, noi figli del Lebensborn. Io e altre due donne, una belga e una norvegese, abbiamo storie simili, ci chiamiamo “sorelle”. Siamo tre donne forti, andiamo avanti. Ma la maggioranza degli ex bimbi Lebensborn che si rivedono o si conoscono a quei raduni sono persone distrutte. Distrutte da quando seppero come e perché sono venute al mondo».

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