Le mobilitazioni degli studenti e dei ricercatori hanno raggiunto in questi giorni una intensità e una estensione che non trovano riscontro in nessuno dei picchi di conflitto toccati nell’ultimo ventennio. Una lunga sedimentazione di analisi, di pratiche, di esperienze sembrano addensarsi oggi in un passaggio manifestamente e direttamente politico che, per la prima volta da molto tempo, si rivela in grado di parlare all’intera società e di farsi pienamente comprendere, di incalzare istituzioni e forze politiche, di incidere sul clima sociale e di far traballare i luoghi comuni e i tabù ideologici che da anni impongono, a destra come a sinistra, l’ordine del discorso e l’orizzonte del possibile.
Le mobilitazioni degli studenti e dei ricercatori hanno raggiunto in questi giorni una intensità e una estensione che non trovano riscontro in nessuno dei picchi di conflitto toccati nell’ultimo ventennio. Una lunga sedimentazione di analisi, di pratiche, di esperienze sembrano addensarsi oggi in un passaggio manifestamente e direttamente politico che, per la prima volta da molto tempo, si rivela in grado di parlare all’intera società e di farsi pienamente comprendere, di incalzare istituzioni e forze politiche, di incidere sul clima sociale e di far traballare i luoghi comuni e i tabù ideologici che da anni impongono, a destra come a sinistra, l’ordine del discorso e l’orizzonte del possibile. L’aria, insomma, è decisamente cambiata. Perché in questo cambiamento di fase, la questione dell’Università e della formazione riveste un’importanza tanto cruciale? In primo luogo perché proprio su questo terreno l’ideologia e la pratica del neoliberismo e i relativi dispositivi disciplinari hanno allestito il laboratorio in cui si progettava il futuro, approntato le tecniche e le procedure per il controllo delle nuove forme del lavoro (di forza lavoro), teorizzato e messo diffusamente in pratica il precariato come strumento di ricatto, mascherato dalle retoriche dell’efficienza; (e) della meritocrazia e della competizione internazionale. Il lavoro precario e le forme di dipendenza che lo caratterizzano, e che oggi insidiano, attraversano e costringono sulla difensiva l’intero mondo del lavoro, si sono imposte come modello proprio a partire dal sistema della formazione e dal lavoro cognitivo. Mettere in scacco l’ideologia liberista e i suoi meccanismi di selezione nell’Università, significa, né più né meno, che metterla in scacco tout court. Senza la scuola e l’università della “disponibilità incondizionata” non si potrebbe pretenderla neanche dagli operai di Pomigliano d’Arco, sociologicamente e culturalmente tanto diversi dalle avanguardie operaie degli anni ’60 e ’70 quanto simili per aspirazioni e forme di vita agli studenti in movimento e al precariato giovanile.
Uno sguardo ravvicinato sulle grandi e medie fabbriche renderebbe visibile il fatto che la precarietà non è appannaggio solo dei giovani che entrano nel mercato del lavoro, ma che è il principio cardine dei rapporti tra capitale e lavoro anche quando si è in presenza di relazioni contrattuali fondati sul contratto a tempo indeterminato.
Sarebbe però errato interpretare l’ “unità contro la crisi” che ha innervato la grande manifestazione della Fiom lo scorso 16 ottobre e si proietta ora verso la manifestazione del 14 dicembre nei termini classici di un’ “alleanza operai-studenti”, o tra stabili e precari, o a patti generazionali, aggiungendovi magari il canonico quesito su a chi spetti l’egemonia e a quale soggetto debba attribuirsi il ruolo salvifico di “motore della storia”. Le cose non stanno più così. Né gli studenti, né gli operai, né il vasto mondo degli sfruttati con i suoi contorni indefiniti, sono più quelli di 40 anni fa. La staticità delle posizioni sociali, con relative forme di coscienza identitaria e “politica delle alleanze”, non appartengono più né alla percezione dei soggetti, né alla natura dei processi di produzione. Ma quello che più rileva è che questa mobilità/precarietà, pur mostrandosi nelle sembianze di una contrattazione individuale, del destino separato di ogni singolo, costituisce un fenomeno collettivo, un tessuto nel quale tutti sono implicati. Lo scambio sul mercato del lavoro si fonda su regole e rapporti di forza che non lasciano spazio alle aspirazioni dei singoli ma, tuttavia, le brandiscono contro l’agire collettivo. Ciò che accade, ora, è che di questo elemento collettivo, dei nessi che collegano le posizioni degli uni a quelle degli altri, si comincia a prendere coscienza, sbaragliando le insistenti corbellerie sul “capitale umano” e gli “imprenditori di sé stessi” che per tanti anni hanno ammorbato il clima sociale e ingannato le prospettive individuali. Il tema classico della “ricomposizione di classe” o, se vogliamo, della classe a venire, deve essere ripensato nei termini di un riconoscimento. Non del simile, ma del diverso. Non dell’ identità di gruppo sociale, ma dell’identità di interessi (intesi in termini, al tempo stesso, economici, politici e culturali). Non su base etico-solidaristica, ma riconoscendo quanto e come la negatività della nostra posizione sia legata alla negatività di quella dell’altro e quanto legato ne sia dunque anche il rovesciamento. Di tutto ciò, il riconoscimento del lavoro migrante costituisce un decisivo banco di prova, come il movimento che ha preso corpo intorno ai migranti arrampicati sulla gru di Brescia ha messo pienamente in luce.
La ministra Gelmini inorridisce nel vedere gli studenti manifestare con i pensionati. Ma non v’è precario che non sappia quanto la pensione dell’anziano genitore compensi il suo reddito misero e intermittente, così come non c’è pensionato che non vorrebbe il suo reddito alleggerito da questo gravame. Per non dire dell’autonomia compromessa di entrambi. Parliamo di una ricomposizione tra personalità complesse, irriducibili ai tratti più scarni e stereotipi della loro (provvisoria) posizione sociale. Una ricomposizione che si dà immediatamente nelle forme del ragionamento politico.
Il ddl Gelmini è segnato, infine, da una maledizione: quella di giungere al termine di un ciclo. Non ha avuto la fortuna dei riformatori di sinistra, che ne hanno gettato le basi e sdoganato l’ideologia, di poter parlare a vanvera in attesa di smentite a venire. Ha, per così dire, alle spalle le macerie dell’edificio che si ripromette di costruire. Le macerie di quel rapporto tra Università e sistema delle imprese, tra formazione e interessi privati, che ne costituisce il presupposto e la ragion d’essere. Gli “imprenditori di sé stessi” sono alla bancarotta, i “meritevoli” vanno per stracci, la crisi scatena una guerra per le risorse disponibili che, mascherata da ricette per il rilancio dell’economia, non è che il tentativo spasmodico di scaricare costi, salvaguardare profitti e posizioni di privilegio. L’Università della competizione liberista, laddove non si investe che l’indebitamento degli studenti e dei ricercatori, presenta il suo biglietto da visita nel pieno di una crisi sempre più fosca, nel bel mezzo di un mondo indebitato fino al collo. Non le resta che gabellare i tagli per virtù e principio di razionalizzazione. Un argomento, a dir poco, miserabile, che non riesce ad attutire l’attrito tra la realtà ruvida della crisi e le ricette senza soluzione di continuità con cui i suoi artefici pretendono di superarla. Ai “riformatori” dell’ Università, che si sono susseguiti negli anni, praticando ciascuno il suo esperimento fallimentare, ma tenendosi tutti rigorosamente nello stesso solco e sulla stessa strada, è giunto il momento di presentare il conto.
C’è poi un altro elemento decisivo, del tutto nuovo rispetto al contesto in cui si sono sviluppati i movimenti degli anni passati, compreso quello, per tanti versi potente, che ha vissuto nelle giornate (gli scontri) di Genova e nella fioritura dei social forum e delle mobilitazioni contro la guerra i suoi momenti di gloria. E cioè la totale destabilizzazione (nel quadro di una destabilizzazione globale) del quadro politico italiano. La stessa tormentata vicenda parlamentare del ddl sull’Università è il segno di quanto le forze politiche, nell’incertezza del proprio futuro, nell’assenza di strumenti culturali e politici diversi da quelli che la crisi e l’insofferenza sociale hanno profondamente logorato, siano oggi spiazzati, disorientati, intimoriti dall’ onda dei movimenti in crescita. Il segno di quanto un’intera cultura (o incultura) politica stia cominciando a franare. Di quanto le alchimie dei compromessi e delle alleanze inciampino sui conflitti reali e la ricerca del minimo comune denominatore fra le forze parlamentari diverga da quell’idea del comune (si veda ad esempio il successo straordinario della campagna per l’acqua pubblica) che sta crescendo nel paese. Finché la crisi della rappresentanza si limita alla disaffezione e alla marginalità imbronciata dei critici e dei disillusi, si può continuare a far finta di niente. Ma quando nelle piazze si esercita il diritto di veto e nelle assemblee quello di proposta, allora il ceto politico è messo di fronte alla sua propria inconsistenza e,con questo, al timore che la sua autoriproduzione sia compromessa. Qui si tratta, allora, di impedirla una “ricomposizione di classe”: e cioè di impedire che sotto la bandiera dell’antiberlusconismo, disarcionato il Cavaliere, i poteri forti si ricompattino, salvaguardando la continuità delle politiche liberiste e restaurando, attraverso più eleganti dispositivi di governance, il controllo sociale e i meccanismi dello sfruttamento. Nelle università, nelle fabbriche, nelle diverse realtà territoriali, di questo si tratta.
La manifestazione del 14 dicembre non è solo per sbarazzarsi di Berlusconi e dei personaggi più inquietanti della sua corte, per ripristinare un innocuo galateo della democrazia, ma anche per impedire un nuovo patto tra padroni. Per avviare un percorso di attraversamento della crisi che non lasci inalterati i rapporti di forza nella società. E impedire che questa riforma dell’Università vada in porto, come è perfettamente chiaro al movimento di opposizione, non può che rimettere in questione anche tutto quello che le sta dietro.
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