KARL MARX. A Toronto, un convegno per i 150 anni del primo libro de «Il capitale» di Marx
Al Convegno di Toronto, alla York University, nell’occasione del Convegno per i 150 anni della pubblicazione del I libro de Il capitale di Marx (1867), organizzato da Marcello Musto, molti relatori hanno sentito il bisogno di evocare Dante e il suo Inferno. Lo hanno fatto William Clair Roberts della McGill University di Montreal, peraltro autore di Marx’s Inferno: The Political Theory of Capital, Ursula Huws, della Herfordshire, Gran Bretagna, che ha immaginato Marx come un novello Virgilio, e Mauro Buccheri, della York University. Immaginare il capitalismo come un inferno dantesco in un ambiente come quello canadese della York University, dove è facile incontrare per strada anatre, procioni, scoiattoli e dove gli studenti di tutte le etnie si muovono con gli zaini e gli auricolari, educati, ben vestiti, ordinati e terribilmente soli con se stessi e con il loro mondo globalizzato tutto dentro lo smartphone, suscita una forte sensazione di contrasto. Questi stessi studenti hanno partecipato in massa al convegno.
DOV’È L’INFERNO? L’ho trovato qualche giorno dopo a Times Square a New York, un luogo dove i racconti che la Grande Mela sa fare di se stessa la ritrovi nei volti della folla, tra una limousine e i sacchi della spazzatura, tra grattacieli e un traffico rumorosissimo. Di quest’inferno e di altri simili si è parlato alla quieta York, dove le analisi su e a partire dal Capitale di Marx si sono succedute fino a una splendida conclusione di Immanuel Wallerstein.
La maggior parte dei relatori ha provato ad analizzare, o meglio, a rivisitare oggi, molti dei temi che rappresentano i punti decisivi della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico. Forte attualizzazione di Marx senza tuttavia eccedere in facili nuovismi. Se la cosiddetta globalizzazione, con la conseguente crisi del 2008 (da cui in parte, ma solo in parte, Usa e Canada sono forse usciti, l’Europa no), crisi ovviamente evocata da una gran parte dei relatori, si è affermata, riportando la parola capitalismo al posto del più generico e ambiguo termine modernità, ciò è accaduto perché il sistema capitalistico ha portato alle estreme conseguenze, accrescendolo in modo esponenziale, quel che c’era già nel XIX secolo, quando Marx parlava di mercato mondiale.
Del resto, il termine globalizzazione rievocò maldestramente la metafora della mano invisibile di Adam Smith, quella stessa metafora che fu oggetto della critica di Marx. Niente di nuovo sotto il sole? No. È solo che l’esigenza generale emersa in questo convegno è di superare annacquamenti analitici di una riflessione sul tempo storico che perde il senso critico e si ammorbidisce in filosofie vaghe che ammiccano al potere politico. Come ha osservato Moishe Postone dell’Università di Chicago: «il termine “capitalismo” è stato reintrodotto sia in più ampie discussioni accademiche che in quelle intellettuali come una concezione che ora appare più analiticamente adeguata di «modernità», che è stata dominante nei decenni postbellici». Postone, come altri, prende le distanze da opzioni culturaliste e genericizzanti per richiamarsi alla specificità di una forma storica come quella capitalistica che tuttavia possiede il potere della globalizzazione.
UN ASPETTO della globalizzazione è la fluidità con cui si ricostituiscono classi, razze, etnie. Questo è uno dei problemi più complessi e difficili da affrontare sul piano politico, perché mentre il capitalismo, di crisi in crisi, procede nel suo incessante dominio, la dislocazione delle classi e di donne, uomini e bambini che vengono sfruttati in ogni angolo del mondo, si muove continuamente e si nasconde dietro la fiction estetica di ciò che Marx disse della società capitalistica, che si presentava appunto come un immenso ammasso di merci. Merci non accatastate nelle periferie, ma oggi nascoste nei containers e offerte feticisticamente in forma di spettacolo non stop ai consumatori nelle mall, queste grandi caverne di Platone del XIX secolo dove non è dato al prigioniero di liberarsi.
Come organizzare i lavoratori, essendo essi oggi in processi di produzione disseminati nel mondo anche per uno stesso prodotto? Come riaprire il tema della cooperazione, modo con cui gli uomini, come afferma Marx, sviluppano la facoltà della specie umana e, nello stesso tempo, mezzo del peggiore sfruttamento dispotico? I discorsi sulla sparizione della classe operaia hanno l’aria di una resa connivente.
UN CONTRIBUTO IMPORTANTE è stato sicuramente quello di John Bellamy Foster sul tema ecologico e l’interpretazione di Marx e del Capitale in tale contesto. Egli ha mostrato come sia possibile leggere il Capitale come una critica ecologica dell’economia politica. Silvia Federici ha discusso la concezione marxiana del lavoro riproduttivo, che ha anticipato l’attuale dispiegarsi delle relazioni di genere con il capitalismo storico, ma ha anche criticato Marx perché non vide il processo di formazione della famiglia del proletariato caratterizzato dallo sfruttamento delle donne e dei bambini e l’introduzione del salario di famiglia.
Forse, per segnalare l’attualità di Marx vale la pena citare questo passo del Capitale:
«L’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione passata era sostanzialmente conservatrice. Con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione nell’altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi».
FONTE: IL MANIFESTO
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