SEDOTTI E ABBANDONATI NEI LUOGHI DEL COMMERCIO
A quarant’anni di distanza dalla sua pubblicazione in Italia, il Mulino riedita La società dei consumi di Baudrillard. Ma vale ancora quella fotografia? Tra le ultime messe a fuoco quella di Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma (Arianna editrice), quella di Paolo Magrassi in La good-enough society (Franco Angeli) e quella di Andrea Segrè in Last Minute Market (Pendragon)
SEDOTTI E ABBANDONATI NEI LUOGHI DEL COMMERCIO
A quarant’anni di distanza dalla sua pubblicazione in Italia, il Mulino riedita La società dei consumi di Baudrillard. Ma vale ancora quella fotografia? Tra le ultime messe a fuoco quella di Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma (Arianna editrice), quella di Paolo Magrassi in La good-enough society (Franco Angeli) e quella di Andrea Segrè in Last Minute Market (Pendragon)
La riflessione critica sulla società dei consumi non se la passa troppo bene: se escludiamo la letteratura di orientamento ecologista, sono ben poche le voci dissidenti che restano. Sembra che l’espressione «società dei consumi» sia nata negli anni ’20 del ‘900, ma è stato il saggio dal titolo omonimo, pubblicato esattamente quarant’anni fa da Jean Baudrillard, a trasformare questa espressione in una vera e propria etichetta diffusasi in tutto il mondo. Dopo l’edizione francese, il volume La società dei consumi è stato rapidamente tradotto nelle principali lingue, ma ha dovuto aspettare il 1997 per approdare negli Stati Uniti, grazie alla traduzione di George Ritzer. Probabilmente a causa del linguaggio sofisticato che ha adottato a partire dalla metà degli anni ’70, un linguaggio assai distante dalle esigenze di una cultura pragmatica, Baudrillard negli Stati Uniti è stato scoperto tardi. Ma ancora nel volume La società dei consumi – che in occasione del quarantennale l’editore Il Mulino ha riproposto in una nuova versione italiana (pp. 240, euro 13) – si esprimeva in modo chiaro, assicurando alle sue analisi efficaci il successo che effettivamente ebbero in tutto il mondo.
Quelle analisi mettevano a fuoco le caratteristiche del boom consumistico che si stava sviluppando negli anni ’60 in Europa, evitando di abbandonarsi ai toni apocalittici in voga all’epoca. E si impegnavano con rigore nel tentativo di sviluppare una vera e propria teoria del consumo, basata su concetti ancora oggi attuali: l’idea, per esempio, che la logica del consumo si è andata progressivamente generalizzando sino a coinvolgere tutto, dai media alla politica all’arte, arrivando a investire la sfera del corpo, della sessualità e in generale dell’intimità. O introducendo la fondamentale interpretazione del mondo del consumo come una realtà di tipo miracoloso, il regno della massima abbondanza – scriveva Baudrillard – dove i beni non sono il frutto del lavoro e delle fatiche degli esseri umani, ma regali dispensati da un’istanza mitologica benefica: la tecnica, il progresso. Questa visione miracolistica del consumo si situava agli opposti di quella concezione funzionalistica e utilitaristica del rapporto con i beni che gli economisti proponevano all’epoca. Ma Baudrillard aveva ben compreso che il regno del simbolico non andava confinato nello spazio delle civiltà primitive, perché svolgeva un ruolo centrale anche nelle società occidentali avanzate della seconda metà del ‘900.
Rinominare i confini
Se il consumatore odierno sente la necessità di sprecare il suo denaro, attuando una pratica non troppo dissimile da quella dei rituali e dei potlach primitivi, e se sente l’esigenza di esibire i suoi beni e i segni del suo benessere, un po’ come gli indigeni melanesiani, è perché in fondo spera che tutto ciò si traduca in una funzione propiziatoria, capace di attirargli la felicità.
Baudrillard sosteneva anche che, non diversamente da quanto già accadeva presso i popoli primitivi, la società dei consumi non costituisse altro se non una grande illusione collettiva, perché in essa tutto è ridotto a segno e simulacro. Proprio perciò, d’altronde, se la società dei consumi ha prodotto un livellamento del tenore di vita dal punto di vista concreto dell’acquisizione dei beni e dei redditi disponibili, ha nel contempo reso possibili nuove gerarchie sociali basate, appunto, sulla capacità discriminatoria intrinseca ai segni.
A distanza di quarant’anni l’analisi di Baudrillard può avere ancora una sua validità? È corretto dire che viviamo ancora all’interno di una società dei consumi? Si potrebbe supporre che nell’epoca di Internet e dei social network l’etichetta «società dei consumi» non sia più in grado di dare conto delle nuove forme che la struttura sociale ha assunto, sebbene il futuro di Internet sia strettamente legato alla sua capacità di fornire risposte adeguate alla esigenza di rivitalizzare un mercato basato sui consumi.
Al di là delle utopistiche pretese di ottenere beni gratuiti, la rete potrà garantirsi una sostenibilità economica solamente se avrà la capacità di sviluppare il commercio elettronico, di stabilire sistemi di pagamento realmente affidabili per le prestazioni offerte e di attirare verso di sé ingenti investimenti pubblicitari da parte delle imprese. Dunque, anche l’attuale società della rete, in fondo, non rappresenta altro che una nuova fase evolutiva della società dei consumi.
Ma, ci si domanda, qualcosa è intervenuto a differenziare questa fase della società dei consumi rispetto a quelle precedenti? Certamente, una prima risposta sta nella presa d’atto della straordinaria accelerazione della velocità con cui vengono diffuse informazioni e prodotti e nella registrazione dell’esponenziale aumento della quantità dei beni consumati. L’accelerazione, naturalmente, è stata resa possibile, insieme alla comparsa della rete, dall’ampliamento e dalla moltiplicazione degli spazi di vendita, che propongono incessantemente nuovi prodotti. Il consumatore, come si sa, è sempre più frequentemente sollecitato a passare dal commerciante conosciuto del piccolo negozio vicino casa agli enormi luoghi deputati alla vendita tramite strategie sempre più spettacolari e coinvolgenti. È questo il tema di cui si occupa Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma (Arianna editrice, pp. 156, euro 10.80), un volume che ragiona criticamente sulle molteplici forme assunte negli ultimi anni dalla distribuzione e sulle conseguenze sociali prodotte da tale sviluppo. Parla, ad esempio, di come la multinazionale Ikea abbia progressivamente affermato in Italia e nel mondo, nell’ambito dell’arredamento e del design, uno stile e un gusto globali, che si sono imposti sulle tradizioni domestiche di ogni paese. Allo stesso tempo – scrive l’autore – «la falegnameria italiana è quasi scomparsa e i piccoli artigiani vicini a un centro Ikea sono costretti a chiudere».
Effetti analoghi sono stati prodotti anche dall’azione esercitata dalla gigantesca catena distributiva americana Wal-Mart e dagli enormi outlet center, che vengono sempre più velocemente aperti anche in Italia. Tutto ciò sembra configurare il passaggio a una fisionomia sociale omologata il cui aspetto è quello di un gigantesco centro commerciale percorso da strade sempre più simili le une alle altre, dove vengono insistentemente proposti prodotti analoghi, per di più delle stesse marche. Tutto ciò autorizza a dire che siamo ormai davanti a una società dei turbo-consumi», che sembra muoversi più in fretta della capacità umana di tenere il passo, e sembra richiedere inedite forme di adattamento. Basate su un modello sociale che ci costringe, se vogliamo restare sincronizzati con la velocità dei processi di cambiamento, a rinunciare al meglio e all’ottimo, considerati irraggiungibili, le attuali società dei consumi si accontentano di riuscire a ottenere il «buono quanto basta» e vengono perciò definite società del good-enough: lo dice Paolo Magrassi in un volume La good-enough society. Sopravvivere in un mondo quasi ottimo (Franco Angeli, pp. 126, euro 16).
Il modello del good-enough comporta, com’è ovvio, un notevole abbassamento degli standard di qualità e delle prestazioni che i prodotti sono in grado di fornire. E il rischio conseguente a una sempre più diffusa adozione di questo modello implica che i soggetti delle società attuali, anziché cercare quell’aurea mediocritas di cui parlava il poeta latino Orazio, cioè – tradotto nel lessico che ci riguarda – un compromesso accettabile tra qualità e risparmio, sono sempre più disponibili a farsi rifilare paccottiglie di infimo livello.
L’ingrediente etico
Come in tutti gli ambiti, anche in quello dei consumi c’è chi non si accontenta di adeguarsi all’esistente, ma prova a introdurvi nuovi criteri di scelta. Per quanto rappresentanti di una minoranza, i consumatori appartenenti all’articolata area del consumo critico sono oggi in crescita. Ne ha scritto Michele Micheletti in Critical Shopping. Consumi individuali e azioni collettive (Franco Angeli, pp. 240, euro 34), spiegando come l’introduzione di criteri selettivi svolga oggi un ruolo sempre più significativo, e come lo sviluppo della globalizzazione e di Internet faciliti i singoli nella sperimentazione di nuove strategie associative e relazionali mentre rende più difficile alle imprese nascondere le proprie politiche produttive. Un consumatore critico effettua le sue scelte impiegando criteri di valutazione dei prodotti che si basano non soltanto sugli aspetti economici, né solo sulle prestazioni fornite, ma include anche valutazioni di tipo sociale ed etico. Perciò, la qualità di quanto acquista risulta anche dalle strategie di produzione, stretegie che coinvolgono la sostenibilità ambientale del processo produttivo, il coefficiente etico del trattamento riservato ai lavoratori, e così via. Micheletti sembra pensare che questi nuovi criteri di scelta adottati dal consumatore possano assumere la valenza di un impegno politico.
Tuttavia, per quanto lodevole sia scegliere un prodotto «etico» piuttosto che no, non basta certo a arginare i danni che l’attuale modello di «turbo-consumo» sta già arrecando all’ambiente. Un discorso analogo lo meriterebbe il cosiddetto Last Minute Market, un innovativo modello di distribuzione che si propone di recuperare i prodotti invenduti ma ancora utili (alimenti, sementi, farmaci, libri, ecc.) per donarli ai soggetti sociali più bisognosi. Benche questo modello renda effettivamente più efficiente il sistema economico attuale, riducendone gli sprechi, solo in minima parte è in grado di proporre nuove attitudini comportamentali, ossia l’obiettivo di consumare meno e in maniera più selettiva.
Lo stesso Andrea Segrè, ideatore di questo modello, sembra esserne consapevole quando scrive nel suo volume Last Minute Market. La banalità del bene e altre storie contro lo spreco (Pendragon, pp. 120, euro 12) che occorre perciò «sostenere una politica che si occupi di ridurre il tempo di lavoro, affinché si riconquisti il senso del tempo trascorso non solo a lavorare e a consumare, ma anche dedicandosi agli affetti, alle passioni, agli hobby, ovvero ai beni spirituali e al benessere psicologico. In altre parole, impegnarsi per ritrovare il tempo di nutrire la propria vita interiore». Perché, come è stato dimostrato da numerose ricerche nel campo della psicologia, solamente arrivando a ridurre l’interesse riservato agli oggetti e alla dimensione della materialità sarà possibile indurre una valutazione maggiore delle proprie risorse psichiche, e dunque accrescere il nostro livello di soddisfazione complessiva.
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