Alla fine degli anni Cinquanta Franco Alasia, che aveva già conosciuto e condiviso l’esperienza di Danilo Dolci in Sicilia, raccolse intense “storie di vita” fra gli immigrati giunti tumultuosamente nelle periferie milanesi dalle aree più povere del Paese. Vecchie e nuove forme di marginalità venivano così alla luce in modo prepotente, e Danilo Montaldi prese avvio da esse per un’analisi penetrante delle grandi trasformazioni in corso. Nacque così Milano, Corea, pubblicato nel 1960 da Feltrinelli e riproposto ora dalla Donzelli, un testo fondamentale per comprendere cosa hanno rappresentato quegli anni nel lungo e contraddittorio processo che ha portato a “fare gli italiani”. Il libro scandaglia a fondo quei grandi flussi di uomini e di donne: «ciò che colpisce – scrive Montaldi – è il “consenso” di tutto un popolo che si muove, da ogni regione, per cause ogni volta diverse e particolari ma sempre estreme».
Alla fine degli anni Cinquanta Franco Alasia, che aveva già conosciuto e condiviso l’esperienza di Danilo Dolci in Sicilia, raccolse intense “storie di vita” fra gli immigrati giunti tumultuosamente nelle periferie milanesi dalle aree più povere del Paese. Vecchie e nuove forme di marginalità venivano così alla luce in modo prepotente, e Danilo Montaldi prese avvio da esse per un’analisi penetrante delle grandi trasformazioni in corso. Nacque così Milano, Corea, pubblicato nel 1960 da Feltrinelli e riproposto ora dalla Donzelli, un testo fondamentale per comprendere cosa hanno rappresentato quegli anni nel lungo e contraddittorio processo che ha portato a “fare gli italiani”. Il libro scandaglia a fondo quei grandi flussi di uomini e di donne: «ciò che colpisce – scrive Montaldi – è il “consenso” di tutto un popolo che si muove, da ogni regione, per cause ogni volta diverse e particolari ma sempre estreme».
Ci fa cogliere sia i tratti talora “feroci” della nostra modernizzazione sia il permanere al suo interno di orizzonti mentali arcaici e di grandissime sacche di miseria. Non a caso, del resto, titolo e simbolo del libro sono le “coree”, agglomerati disordinati e fitti di abitazioni costruite dall´oggi al domani dagli immigrati stessi: «mia moglie, quando è venuta su voleva tornare indietro – racconta un giovane campano – lì era la Corea, non Milano. Siamo a otto chilometri da Milano e ci manca tutto”.
Montaldi segnala al tempo stesso il riproporsi in forme nuove di antichissimi scenari di fatica: «non diversamente dal tessitore del 1830», osserva, «il lavoratore industriale che arriva al mattino in Città dal Bergamasco tra viaggio e lavoro spende dalle 15 alle 18 ore quotidiane (…). L´alba della Città comincia a tanti chilometri di distanza con un risveglio di massa». Siamo, insomma, nel cuore del “miracolo economico” e delle sue contraddizioni: negli anni stessi delle “coree” sorgono a Milano, ad esempio, il grattacielo Pirelli o la Torre Velasca. E il libro di Alasia e Montaldi esce contemporaneamente a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti o alla prosa “agra” de L´integrazione di Luciano Bianciardi.
Le storie di vita raccolte da Alasia illuminano di luce cruda anche i luoghi di partenza degli immigrati. Non di rado un Veneto poverissimo (“al mio paese ne è venuto via oltre la metà dopo la guerra”), che ha un “luogo” simbolico nel Polesine devastato dalle rotte del fiume (“venuta l´alluvione siamo rimasti proprio senza niente”). E naturalmente il Mezzogiorno: le testimonianze fanno cogliere sia le irruzioni della storia, con le occupazioni delle terre e le lotte per il lavoro, sia il permanere di “una preistoria ben contemporanea”, per dirla con Montaldi, presente sin nel modo di misurare il tempo e lo spazio (“quello ce n´ave di terra, minimo minimo quattro ore di camminare con il cavallo sempre sulla sua terra”). Ancor più illuminanti sono però gli sguardi sulla “capitale del miracolo”, che da un lato evocano una possibile via all´emancipazione (“sono arrivato a vivere nella nazionalità operaia”), dall´altro suggeriscono domande rilevanti anche per l´oggi
Milano, Corea ci ricorda infatti che quelle colossali migrazioni interne coesistono sino al 1961 con un permanere della legislazione fascista contro l´urbanesimo che le rende illegali e trasforma gran parte degli immigrati in “clandestini del lavoro” nella propria patria. Prosperano così le “cooperative”, forme di appalto e subappalto “selvaggio” della manopera, e non vi è solo l´ingiustizia o l´estorsione praticata per questa via ai danni degli immigrati. Vi è un aspetto ancor più di fondo: la società moderna, meta di migliaia e migliaia di persone, si presentava ad esse profondamente segnata dall´assenza delle regole, dall´arbitrio e dalla sopraffazione; alimentava la diffidenza verso le strutture pubbliche, verso le istituzioni e il loro modo di essere. A chi si interrogava sulle conseguenze dei flussi migratori sulla società d´arrivo Milano, Corea rispondeva con un rovesciamento radicale: quali sono i guasti che la società d´arrivo, nel suo funzionamento concreto, induce in essi? Quanto contribuisce ad irrobustire al loro interno le tendenze meno virtuose, a favorire le mentalità e i comportamenti meno rispettosi delle regole? Un rovesciamento di bruciante attualità, come si vede.
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