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Gaber segreto

Versi scritti, riscritti e cancellati, canzoni mai cantate, testi cambiati poco prima del concerto, ricerca ossessiva della parola giusta. Cinquant’anni di musica, teatro e politica Ecco come lavorava il Signor G.
Appunti, riflessioni politiche, testi scritti e riscritti, canzoni rimaste sulla carta. Per la prima volta un libro curato da Guido Harari raccoglie l’archivio dello chansonnier milanese. Un’autobiografia postuma che racconta speranze, delusioni e disincanto dai tempi del Cerutti Gino ai “cambiamenti preoccupanti” del Duemila

Versi scritti, riscritti e cancellati, canzoni mai cantate, testi cambiati poco prima del concerto, ricerca ossessiva della parola giusta. Cinquant’anni di musica, teatro e politica Ecco come lavorava il Signor G.
Appunti, riflessioni politiche, testi scritti e riscritti, canzoni rimaste sulla carta. Per la prima volta un libro curato da Guido Harari raccoglie l’archivio dello chansonnier milanese. Un’autobiografia postuma che racconta speranze, delusioni e disincanto dai tempi del Cerutti Gino ai “cambiamenti preoccupanti” del Duemila

Si dovrebbe cominciare dalle cartellette e dai cassetti pieni di fogli a casa sua, in via Frescobaldi a Milano, o dalle casse di materiali nella sede della fondazione, poco distante, in piazza Aspromonte: le lettere, gli appunti, i manoscritti, i fogli volanti, un mucchio di fotografie e i ritagli di giornale dove si conservano i sessantatré anni di bella, faticosa e ricca esistenza di Giorgio Gaber. Un tesoro di carte che raccontano il suo valore e alzano il velo su come nascevano le sue canzoni, chi lo ispirava, come pensava. Un distillato di questo tesoro è L´illogica utopia a cura di Guido Harari, un libro elegante e spericolato. Trecentoventi pagine e oltre quattrocento illustrazioni che raccontano Gaber con le parole di Gaber.
Quelle immagini, i documenti, le interviste, gli appunti mescolati e ordinati insieme a un gruppo di amici – da Paolo Dal Bon a Dolores Redaelli, Giorgio Casellato e ai giovani che oggi lavorano nella Fondazione Gaber – sono diventate le pagine di una lunga “autobiografia” postuma, che ripercorre in prima persona i cinquant´anni di musica e teatro, i ventisei album, il tempo della giovinezza, il Santa Tecla, la Milano accanitamente amata, gli amici Jannacci, Celentano, Mina, Tenco, la tv, la moglie Ombretta Colli, il Piccolo, i rapporti complicati con gli ex del ´68 e l´innamoramento dei nuovi giovani.
«Sono tutte parole sue. Parole che lui aveva scritto, detto nelle interviste, pubblicato. Noi ci siamo presi la responsabilità di sceglierle, selezionarle. E io ce lo ritrovo mio papà». Dalia, quarantaquattro anni, figlia unica di Gaber, manager nelle pubbliche relazioni di spettacolo («un lavoro che mio padre odierebbe»), Gaberscik di cognome come era l´originale di Giorgio, dopo la morte nel 2003 si è data subito da fare per tenere viva la memoria del padre. «Ho pensato che non dovevo tenere Gaber per me, ma che le sue canzoni e i suoi scritti dovessero essere conosciuti dai giovani. Sono nati per questo il Festival Gaber e la Fondazione».
Sul lavoro Gaber produceva montagne di scritti. Quanto fosse pensato, soppesato, sofferto ogni suo testo lo testimoniano i manoscritti in buona parte inediti raccolti nel libro: appunti su una canzone, correzioni, rifacimenti, il testo originale de Il grido tagliato, corretto, foglietti di hotel zeppi di appunti per Mi fa male il mondo, I mostri che abbiamo dentro in una stesura originale che non è quella cantata, cancellazioni e aggiustamenti sul testo scritto a mano de Il potere dei più buoni. Ci sono le bozze de La legge («La legge in un paese alla deriva fa sì che la giustizia sia un po´ riflessiva…») con i ripensamenti, le parole giuste, la tormentata stesura de Il filosofo overground dall´album Gaber 96-97, una strofa di Io non mi sento italiano rimasta sulla carta. Ricorda Dalia: «Era sempre concentrato sul lavoro anche a casa. Da bambina mi rubava le penne dall´astuccio, poi siamo passati all´epoca del “Dalia dobbiamo battere a macchina”, che poi era il massimo della tecnologia che potesse concepire perché del computer non si fidava. Non ricordo che dopo gli spettacoli facesse molte altre cose, a parte i lunedì quando ogni tanto giocava a poker con Battiato, Roberto Calasso Fleur Jaeggy. E invece dei soldi puntavano i libri».
Il lavoro di trent´anni insieme a Luporini, l´amico pittore della prima ora e suo coautore, ha sempre seguito una ferrea ritualità domestica: finita la tournée, a giugno si vedevano a Viareggio («dove veniva deportata l´intera famiglia», ironizza Dalia). E per tutta l´estate erano pomeriggi intensi, di discussioni. «Parlavano parlavano parlavano e fumavano milioni di sigarette», ricorda la figlia. «Giravano intorno a un tema dello spettacolo»: l´infatuazione dell´amore per Il dilemma, la coppia ne Il dio bambino, la vacuità collettiva per E pensare che c´era il pensiero… «Mio padre si era ammalato nell´89 ma fino al Duemila continuò a fare spettacoli», ricorda Dalia. Poi le cose cambiarono. Stava più a casa. Le riflessioni erano diventate più cupe. Qualcuno disse che c´entrava anche la discesa in campo con Berlusconi della moglie Ombretta. Ma se l´Italia si divideva in berlusconiani e no, lui vedeva solo i guasti della politica, a destra come a sinistra, cosa che lo immischiò in un ginepraio di critiche e dissensi, specie da sinistra. «Ho vissuto la maggior parte nel Novecento – si legge nelle ultime pagine libro – Questi frammenti che mi rimangono nel Duemila mi pongono di fronte a prospettive di cambiamenti preoccupanti». E poche pagine dopo, con uno dei suoi tocchi ironici: «Ma saremo mica depressi Luporini e io?». Ovvio che no. A riascoltare le ultime cose, lo spettacolo Io quella volta lì avevo venticinque anni, che Claudio Bisio sta portando in scena, l´album La mia generazione ha perso o la canzone postuma Io non mi sento italiano che Fazio e Saviano hanno voluto qualche sera fa a Vieni via con me, le sue sonore lavate di capo si sentono ancora. Quel suo modo di «farci lo shampo». Pur di non lasciarci sprofondati in poltrona a rimbambirci davanti alla tv.

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