Narrativa ungherese. Forse furono proprio le sue origini popolari a spingere Sandor Kopacsi a schierarsi dalla parte dei ribelli, contro ogni ordine: «Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello», da e/o
A Budapest, e per l’esattezza a Buda sulla riva destra del Danubio, nella centralissima Fo Utca si erge un edificio straordinariamente tetro, che non fa nulla per dissimulare la funzione di carcere a cui nel corso della storia è stato più volte destinato. Sul retro, tra il filo spinato che cinge tuttora alcune finestre, una lapide ricorda che qui nel giugno 1958, tra le mura dell’allora Tribunale militare, fu condannato a morte e giustiziato Imre Nagy, l’uomo che durante la rivolta antisovietica dell’ottobre 1956 era stato proclamato a furor di popolo primo ministro della Repubblica popolare di Ungheria.
Lungi dall’aver istigato di persona la folla che il 23 ottobre nella piazza antistante il Parlamento aveva scandito per ore il suo nome, Nagy accettò – più che altro per senso di responsabilità – il gravoso compito di traghettare il proprio paese fuori dal Patto di Varsavia e verso quelle riforme democratiche cui un decennio dopo in Cecoslovacchia sarebbe stata assegnata l’etichetta di «socialismo dal volto umano».
Una speranza infranta di lì a breve contro i cingoli dei carri armati T-34 inviati da Mosca a sedare la rivolta, al termine di una sequenza estenuante e ancor non del tutto chiarita di concessioni, trattative e ripensamenti. Ed è proprio alle vie di Budapest invase dagli insorti, nonché al cupo sfondo di Fo Utca, che ci riportano le notevoli memorie di Sandor Kopacsi In nome della classe operaia, già pubblicate da e/o nel 1980 e ora riproposte dalla stessa casa editrice con il nuovo titolo Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello (traduzione di Angela Trezza, pp. 419, euro 18,00).
Un punto di vista senz’altro privilegiato, quello di Kopacsi, figlio di un semplice tornitore, combattente della resistenza comunista durante la seconda guerra mondiale, nonché questore di Budapest al tempo della rivolta. Forse fu proprio la sua innata vicinanza al popolo a spingerlo a schierarsi dalla parte dei ribelli, prima rifiutandosi di aprire il fuoco su di loro, poi trattando più volte con i capi della guerriglia urbana, e infine accettando un posto nel comitato rivoluzionario di Nagy. La «colpa» di Kopacsi (scontata con una condanna all’ergastolo annullata dopo sette anni) fu innanzitutto quella di aver voluto agire da politico nel suo ruolo di capo della polizia – e non da semplice mastino dei suoi capi. Questa tendenza il questore la dimostrò fin dagli antefatti della rivolta e cioè dal 23 ottobre, quando riuscì a convincere il segretario del partito Erno Gero ad autorizzare la manifestazione studentesca indetta per quel pomeriggio in solidarietà con le riforme annunciate in Polonia da Wladyslaw Gomulka.
Il suo «solido buon senso» operaio (qualità che gli riconosce anche Aldo Natoli nella postfazione alla prima edizione, ora riproposta) gli suggeriva infatti che sarebbe stato assurdo mettersi in una posizione in cui la polizia avrebbe potuto essere costretta a far uso delle armi, se – come probabile – i dimostranti avessero deciso di ignorare il divieto a manifestare. Peccato che sarebbe stato proprio quel corteo oceanico a dare l’avvio alla sommossa, allorché gli operai abbatterono la gigantesca statua di Stalin che troneggiava in piazza degli Eroi.
Malgrado qualche tentennamento successivo, la scelta di campo per Kopacsi avvenne dunque già in questa giornata, allorché decise di rifiutare l’«offerta» dei suoi uomini (peraltro pochissimi) schierati sul posto e pronti a intervenire contro i dimostranti («Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello. Era incredibile! Sarebbe bastato un ordine ed erano disposti a sparare sulla folla»). Lui, Sandor Kopacsi, voleva invece capire cosa stava accadendo, capire innanzitutto cosa volevano quei giovani per cui non riusciva a non provare un’istintiva simpatia, forse perché gli ricordavano se stesso alla loro età, mentre combatteva insieme ai partigiani del gruppo Mokan e all’Armata Rossa sui Carpazi.
Frutto, com’è ovvio, di una rielaborazione a posteriori degli eventi avvenuta negli anni settanta, quando l’ex questore era ormai approdato in Canada, il libro di Kopacsi restituisce tuttavia con grande vivacità l’urgenza di comprendere cosa fosse restato di quelle speranze di rinnovamento sociale che per la generazione dell’autore si erano identificate prima con l’arrivo dell’Armata Rossa nel settembre 1944 e poi con l’instaurazione della Repubblica popolare di Ungheria.
«Non ero forse pure io per una vita migliore, per il partito dei lavoratori? E allora perché questi giovani, così simili a me, mi avevano scelto per bersaglio?», si chiede affranto l’io narrante nel vedere che i rivoltosi in armi hanno eretto una barricata proprio davanti alla sua questura. Le giornate in cui per le strade di Budapest si consumò il breve tentativo insurrezionale diventano un momento di tragici consuntivi esistenziali per Kopacsi, che sotto il regime dello stalinista Matyas Rakosi aveva fatto una fulminante carriera, grazie anche alle sue origini proletarie. Per cui assai comprensibile è la sua reazione, allorché si diffuse la notizia che i servizi di sicurezza ungheresi davanti al Parlamento avevano aperto il fuoco sulla folla inerme: «Quel giovedì 25 ottobre 1956 avevo visto tante di quelle atrocità, avevo avuto tante delusioni e accumulato nella mia mente tanti problemi insolubili che, se non fossi stato circondato dai miei ufficiali, se fossi rimasto solo nel mio ufficio, mi sarei sparato».
Eppure non è nemmeno questo il punto più basso della parabola sperimentata dal «compagno colonnello»: l’illusione che la vicenda potesse concludersi felicemente svanì infatti alla svelta, non appena le trattative tra Nagy e i due emissari del Cremlino, Anastas Mikojan e Michail Suslov, vennero vanificate dall’intervento dei carri armati. Kopacsi uscì completamente annichilito, arrestato insieme ai capi militari della rivolta e incriminato per tradimento da quello stesso regime «che avevo sostenuto per tanti anni e che avevo fatto funzionare».
La rivoluzione che Agnes Heller avrebbe definito «politica per eccellenza», in quanto «scaturita dalla totale crisi di legittimizzazione di un regime tirannico», terminò dunque per l’autore con una disintegrazione totale della sua identità di comunista e di combattente. Chi ero io? si chiede nei giorni dell’arresto Kopacsi: «Il questore di Budapest? Il figlio prediletto di mio padre? Un adepto di Chruscev e di Imre Nagy? Un guscio di lumaca svuotato della sua sostanza?» A quest’uomo senza qualità, se non quella nient’affatto trascurabile di essersi rifiutato di versare il sangue della propria gente, verrà negato anche il conforto ultimo di una morte eroica. Tra gli imputati del processo-farsa orchestrato dal Cremlino e celebratosi in segreto tra le mura di Fo Utca Kopacsi sarà infatti l’unico a scampare al patibolo – una ennesima volta grazie alle sue origini operaie, nonché all’intercessione di Janos Kadar, l’uomo a cui Mosca aveva affidato la «normalizzazione» della città ribelle sulle rive del Danubio. Non a Joszef Szylagyi («suicidato» in carcere durante l’istruttoria), né a Nagy, né al generale Pal Maleter, né al giornalista Miklos Gimes (tutti impiccati la mattina del 16 giugno 1958), bensì a Kopacsi sarebbe dunque toccato il compito della memoria e della testimonianza.
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